Guida - "Mettersi in proprio: lo sviluppo del progetto imprenditoriale"


testata Mettersi in proprio n. 1
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28/10/2015 - 16:23

Aggiornato il: 28/10/2015 - 16:23

1. Il bilancio


Alcuni concetti semplici di contabilità aziendale

Un aspetto molto delicato del piano d’impresa è rappresentato dal passaggio dai termini descrittivi ad un «sistema di valori», cioè a cifre sulle quali ragionare concretamente. Far questo è impossibile se non si conosce la tecnica contabile. E, al di là di questo, una conoscenza minima di concetti quali il bilancio, la contabilità, ecc., è comunque indispensabile.

 

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27/10/2015 - 15:46

Aggiornato il: 27/10/2015 - 15:46

1.1 - Il bilancio: l'impresa in numeri


Cos’è il bilancio

Il «lavoro» degli amministrativi consiste nel produrre informazioni sulla vita e sullo stato di salute dell’impresa. Queste informazioni vengono prodotte «misurando» l’attività che viene svolta con un «metro» del tutto particolare, ma quanto mai efficace: la moneta.

In pratica ogni fatto di gestione viene tradotto in numeri.

Chiaramente lo sforzo di «traduzione» viene posto in essere «filtrando» la realtà aziendale attraverso dei processi di semplificazione, che consentono di rappresentare in forma sintetica quanto accade nell’impresa.

Il bilancio non è altro che il principale risultato di questo processo di «filtro» e di «traduzione»: è la sintesi delle vicende di gestione, che vengono descritte in termini «quantitativo-monetari».

Il bilancio, in sostanza, è uno strumento di interpretazione e di rappresentazione sintetica dei comportamenti aziendali e delle vicende di gestione.

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05/11/2015 - 10:41

Aggiornato il: 05/11/2015 - 10:41

1.1.1 Lo stato patrimoniale


Lo stato patrimoniale: uno schema fonti/impieghi

Iniziamo con lo stato patrimoniale e vediamo cosa cerca di raccontarci.

Che cosa fa un imprenditore di solito? Prende del denaro, in parte suo ed in parte di altri, e lo utilizza per effettuare degli investimenti.

Il momento fondamentale di questo primo passo dell’attività di impresa è dunque rappresentato da questo accumulo di capitale, che può essere osservato sotto due punti di vista:

• da dove viene il denaro: la raccolta del capitale;
• come viene investito il denaro: l’utilizzo del capitale.

Investimenti o impieghi

Stato patrimoniale

Finanziamenti o fonti

Come viene investito il denaro

Attività
Impianti
Immobili
Merci
Cassa e banca
Crediti verso clienti

Passività
Debiti verso banche
Debiti verso fornitori
Debiti verso dipendenti

Capitale netto

Da dove viene il denaro

Vediamo cosa dice praticamente lo stato patrimoniale nel seguente schema:

Il lato di destra dello stato patrimoniale (la sezione del passivo) risponde alla seguente domanda: da dove viene il denaro che l’imprenditore ha a sua disposizione?
Vi troveremo in parte debiti e in parte – ovviamente – denaro dell’imprenditore, ovvero il capitale proprio (o capitale netto).

Il lato di sinistra dello stato patrimoniale (la sezione dell’attivo) risponde invece alla seguente domanda: come è investito il denaro a disposizione dell’imprenditore?
Vi troveremo merci, impianti, ma anche crediti e disponibilità di contanti (cassa e banca).

Lo stato patrimoniale ci dice, in sostanza, quali siano le fonti e gli impieghi di capitali. In altre parole, è una «fotografia istantanea» di quelle che sono, in un determinato momento, le risorse a disposizione dell’impresa per la gestione futura: è un po’ «il punto di partenza dell’attività dell’anno prossimo». 
Ai fini civilistici e fiscali al 31 dicembre, per la maggior parte delle aziende in normale funzionamento, ma non necessariamente. È frequente, ad esempio, il caso di società che prevedono un esercizio sociale che va dal 1° luglio di un anno al 30 giugno dell’anno seguente.

Più in dettaglio, lo stato patrimoniale raccoglie, tecnicamente:• le attività;  • le passività;  • il capitale netto.


Le attività esprimono investimenti o «impieghi di risorse» e sono rappresentate da:
• valori finanziari attivi (crediti verso clienti, cassa, conti correnti bancari attivi, ecc.);
• valori economici relativi a beni acquistati (costi) ma non ancora interamente utilizzati (impianti, rimanenze di prodotti, ecc.).

Le passività esprimono finanziamenti o «fonti di risorse» esterne e consistono in:
• valori finanziari passivi (debiti verso fornitori, finanziamenti bancari, ecc.);
• valori economici relativi a ricavi già conseguiti ma che interessano anche gli anni futuri.

► Normalmente le attività sono superiori alle passività e la loro differenza costituisce il cosiddetto «capitale proprio» dell’azienda, detto anche «capitale netto», che va annotato sotto il totale delle passività. Esso esprime, come già visto, i finanziamenti di proprietà dell’imprenditore.
►In caso contrario (se cioè l’azienda è in passivo), la differenza tra il totale delle passività e il totale delle attività costituisce il cosiddetto «deficit patrimoniale», che va annotato sotto il totale delle attività.

Nel caso in cui l’azienda sia costituita in forma societaria, il capitale proprio può essere suddiviso in:

• capitale sociale dell’impresa, costituito dalle risorse messe a disposizione dell’azienda dai soci;
• fondi di riserva, che derivano principalmente da utili conseguiti ma non distribuiti tra i soci, o da operazioni di carattere particolare;
• utile di esercizio1 che eventualmente si realizza, e che costituisce un’ulteriore fonte di finanziamento (fino a che non venga distribuito tra i soci).

La rappresentazione tradizionale (c.d. «a sezioni contrapposte») dello stato patrimoniale è la seguente (dati puramente esemplificativi, in migliaia di euro):2

Stato patrimoniale

Attività

Passività

Cassa

5

Banche c/c passivi

450

Banche c/c attivi

40

Debiti verso fornitori

120

Crediti verso clienti

220

Debiti diversi

100

Crediti diversi

75

Mutui passivi

500

Rimanenze finali di magazzino

320

Fondo svalutazione crediti

10

Terreni

140

Altri fondi di accantonamento

110

Fabbricati

700

Fondo T.F.R.

130

Impianti e macchinari

700

Fondo ammortamento fabbricati

250

Mobili e arredi

150

Fondo ammortam. impianti e macchinari

400

Brevetti

60

Fondo ammortamento mobili e arredi

70

Marchi

40

Totale passività

2140

 

 

 

Capitale proprio:

 

 

Capitale sociale

150

 

Fondi di riserva

50

 

Utile di esercizio

110

 

 

TOTALE A PAREGGIO

2450

Totale attività

2450

 

Vediamo ora, con maggior dettaglio, le principali voci (dette tecnicamente «poste») contenute nello stato patrimoniale.3

Attività

• Cassa e banche c/c attivi: rappresentano l’insieme dei mezzi liquidi a disposizione dell’azienda.
• Crediti verso clienti: sono crediti relativi ad operazioni di vendita che non sono state ancora regolate: si tratta cioè di somme da incassare. Possono essere ad esempio rappresentati da cambiali, e in tal caso avremo il conto «cambiali attive».
• Crediti diversi: sono crediti di varia natura (verso l’Erario, i dipendenti, ecc).
• Rimanenze finali di magazzino: si tratta di investimenti in attesa di realizzo. Come spiegato, figurano anche nella sezione ricavi del conto economico.
• Terreni, fabbricati, impianti, macchinari, mobili, arredi, automezzi: rappresentano le cosiddette immobilizzazioni materiali: sono beni che daranno la loro utilità in più esercizi. Quindi il loro costo deve essere ripartito tra i vari periodi in cui saranno utilizzati, con un procedimento detto di «ammortamento economico».
• Brevetti e marchi: sono immobilizzazioni immateriali: anche il loro costo deve essere suddiviso in più esercizi.

Passività

• Banche c/c passivi: sono i debiti verso le banche per finanziamenti ottenuti (a breve termine).
• Debiti verso fornitori: sono debiti verso i fornitori relativi ad operazioni d’acquisto effettuate, ma non ancora regolate. Nel caso in cui siano rappresentati da cambiali, troveremo il conto «cambiali passive».
• Debiti diversi: sono debiti dell’azienda verso vari soggetti (Erario, istituti previdenziali, ecc.).
• Mutui passivi: si tratta di finanziamenti a medio-lungo termine ottenuti da banche o altri istituti di finanziamento.
• Fondo svalutazione crediti: corregge il valore nominale dei crediti in previsione di rischi di insolvenza. Si incrementa con le quote che annualmente vengono destinate a tale scopo nel conto economico.
• Altri fondi di accantonamento: rappresentano passività legate ad eventi negativi probabili, ma non ancora manifestatisi, o comunque non ancora determinati nel loro ammontare.
• Fondo T.F.R. (Trattamento Fine Rapporto): è il debito totale accumulato dall’impresa verso i dipendenti per indennità di liquidazione. Nasce dalla somma delle quote maturate nell’esercizio attuale e in quelli precedenti.
• Fondi ammortamento: è una voce che rettifica il costo delle immobilizzazioni per la perdita di valore che esse subiscono col tempo, a causa del logorio fisico e del superamento tecnologico. Il suo valore è dato dalla somma delle quote di ammortamento calcolate anno per anno.


1 A volte si confonde l’utile col «reddito». Più precisamente, il termine reddito è «neutro»: esso significa «risultato». Se il risultato è positivo, si parla di «utile»; se è negativo, si parla di «perdita». La perdita dovrà essere annotata nella sezione delle attività (oppure nella sezione del capitale proprio, ma con segno negativo).
2 Negli schemi che presentiamo sono evidenziate in grigio le «poste di collegamento» tra stato patrimoniale e conto economico (il risultato di esercizio e le rimanenze finali): esse devono figurare con pari importo nei due prospetti. In caso contrario, c’è qualcosa che non va.
3 Le voci proposte sono ovviamente a titolo puramente esemplificativo, senza alcuna pretesa di esaustività: esistono infatti moltissime altre poste specifiche che possono (o devono) essere utilizzate, ad esempio stante la particolare attività esercitata (es. «riserva premi» o «riserva sinistri» nel settore assicurativo).

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09/11/2015 - 12:31

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:31

1.1.2 - Il conto economico


Diamo un «valore» agli «attori» della gestione

Abbiamo detto che in un dato momento (di solito al 31 dicembre) lo stato patrimoniale «fotografa» quali sono le risorse impiegate (investimenti) e i vincoli (finanziamenti di terzi) che ci troviamo di fronte.

Il nostro imprenditore, poi, con quanto si trova a disposizione al 1° gennaio, svolgerà la sua attività durante l’anno. Ovviamente, infatti, l’imprenditore non ha posto in essere questi investimenti tanto per fare ma perché ha intenzione di utilizzarli – e quindi di «consumarli» – per ottenere determinati risultati.

Il conto economico, cioè il secondo prospetto di bilancio, ci racconta appunto le «vicende di gestione», ovvero quello che accade durante l’anno:

• che cosa è stato consumato (costi) e
• con quali risultati (ricavi).

Costi e ricavi, dal nostro punto di vista, rappresentano gli «attori» dell’attività di gestione, che deve essere tradotta in termini monetari. Infatti nel conto economico:

• le risorse consumate nel corso dell’esercizio vengono espresse in valore (e rappresentano i «costi di esercizio»);
• i risultati ottenuti nell’esercizio combinando insieme le risorse consumate vengono anch’essi espressi in valore (e rappresentano i «ricavi di esercizio»).

 

Conto economico

Cosa è stato consumato

 

Costi: valore delle risorse consumate

Ricavi: valore dei risultati ottenuti

 

Per ottenere che cosa

Chiaramente se i risultati ottenuti sono, in termine di valore, maggiori dei costi avremo un utile, altrimenti una perdita.

Se ora consideriamo il periodo che va dal 1˚ gennaio al 31 dicembre, vediamo che:

1) partiamo al 1° gennaio con un certo stato del capitale (composto da attivo, passivo e capitale netto), fotografato, appunto, dallo stato patrimoniale;
2) nel corso dell’anno effettuiamo un’attività di gestione che ci viene descritta, in termini di consumi di risorse e di risultati ottenuti, dal conto economico;
3) infine, arriviamo al 31 dicembre successivo ad un nuovo stato del capitale che rappresenta il «nuovo punto di partenza» e che sarà diverso – sia in termini di attivo e passivo (come qualità e quantità) sia in termini di capitale netto – rispetto a quello redatto all’inizio dell’anno: questo perché la gestione ha prodotto un certo risultato, modificando di conseguenza la composizione dell’intero capitale di funzionamento.

Quindi il bilancio al 31 dicembre – composto appunto da stato patrimoniale e conto economico – ci dice:
• come abbiamo lavorato nei 12 mesi precedenti (conto economico);
• cosa abbiamo a disposizione per gli anni futuri (stato patrimoniale).

Fra i due prospetti di bilancio, pertanto, il più orientato al futuro è lo stato patrimoniale.

Il conto economico, invece, raccoglie risorse consumate e ricavi conseguiti, cioè costi e ricavi «morti». Ci racconta quello che è successo, non ciò che succederà (anche se noi possiamo comunque estrapolare da esso dei dati per avere qualche indicazione sul futuro).
Vediamo di seguito il prospetto di conto economico, anch’esso visto nella sua impostazione tradizionale (cifre puramente indicative, in migliaia di euro):

Conto economico

Costi

Ricavi

Rimanenze iniziali di magazzino

300

Ricavi di vendita

2370

Costi di acquisto

1100

Proventi vari

25

Costi del personale

630

Proventi finanziari

20

Spese generali

160

Plusvalenze e proventi straordinari

10

Oneri finanziari

150

Resi su acquisti

5

Ammortamenti

155

Rimanenze finali di magazzino

320

Quota fondo T.F.R.

15

Abbuoni e sconti attivi

3

Quota fondo svalutazione crediti

10

 

Quota accantonamento altri fondi

5

 

Minusvalenze e oneri straordinari

5

 

Oneri diversi

5

 

Resi su vendite

20

 

Abbuoni e sconti passivi

8

 

Imposte sul reddito

80

 

Totale costi

2643

Totale ricavi

2753

Utile di esercizio

110

 

TOTALE A PAREGGIO

2753

 

Come abbiamo già fatto per lo stato patrimoniale vediamo ora in modo più analitico le principali voci o «poste» che rientrano nel conto economico.

Costi

• Rimanenze iniziali di magazzino: si tratta delle giacenze (merci, prodotti finiti, semilavorati, prodotti in corso di lavorazione, materie prime, imballaggi, scorte di consumo) esistenti in magazzino all’inizio dell’esercizio; come precisato, sono costi ereditati dall’anno precedente.
• Costi di acquisto: riguardano le merci, gli imballaggi, le scorte di consumo, i semilavorati acquistati nell’esercizio.
• Costi del personale: sono i costi sostenuti per salari e stipendi corrisposti ai dipendenti, comprensivi dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro.
• Spese generali: sono i costi sostenuti per prestazioni di servizi in genere: spese postali, cancelleria, utenze varie (telefono, luce, ecc.), assicurazioni, trasporti, consulenze, pubblicità, ecc.
• Oneri finanziari: sono gli interessi passivi che maturano su debiti di diversa natura: verso le banche, verso i fornitori, ecc.
• Ammortamenti: rappresentano la quota del costo d’acquisto di alcuni beni aziendali che si fa incidere sul reddito dell’esercizio. I beni sono costituiti dai cosiddetti «investimenti pluriennali» (edifici, impianti, mobili, ecc.), che daranno il loro contributo alla produzione per periodi superiori a un anno. L’ammortamento rappresenta la parte di tali beni consumata nell’anno.
• Accantonamenti nei «fondi spese future» e nei «fondi rischi»: rappresentano quote di costi che si fanno pesare sul reddito d’esercizio in previsione di eventi che accadranno (sicuramente o probabilmente) nel futuro. Si ricordano:
quota fondo T.F.R. (Trattamento Fine Rapporto): rappresenta la quota di costo per indennità di liquidazione maturata nell’esercizio;
quota fondo svalutazione crediti: è un costo presunto che si fa gravare prudenzialmente sul reddito di esercizio, in previsione di eventuali insolvenze dei clienti;
quota accantonamento altri fondi, legata a situazioni particolari e difficilmente generalizzabili.
• Minusvalenze e oneri straordinari: si tratta di costi legati a fatti straordinari di gestione (vendita di un impianto a prezzo inferiore al suo valore contabile, furti dalla cassa, danni provocati da incendi o calamità naturali, ecc.).
• Oneri diversi: si tratta di costi di natura accessoria.
• Resi su vendite: si tratta di valori derivanti da restituzioni di merci vendute (materie prime, prodotti). Essi correggono indirettamente i ricavi delle vendite.
• Abbuoni e sconti passivi: costituiscono riduzioni dei prezzi di vendita pagati dai clienti.
• Imposte sul reddito: sono le imposte (già versate o ancora da versare) che colpiscono il reddito conseguito nell’esercizio.

Ricavi

• Ricavi di vendita: rappresentano il fatturato relativo ai beni o servizi venduti in corso d’esercizio.
• Proventi vari: rappresentano rendite di varia natura (accessoria o patrimoniale): ne sono un esempio i «fitti attivi», cioè i canoni di affitto di beni concessi in locazione.
• Proventi finanziari: sono gli interessi attivi maturati sui conti correnti bancari e postali o sui crediti (verso clienti o soggetti diversi).
• Plusvalenze e proventi straordinari: si tratta di ricavi legati a fatti eccezionali di gestione (la vendita di un impianto a prezzo superiore al suo valore, un debito che cade in prescrizione senza essere stato pagato, ecc.).
• Resi su acquisti: si tratta di valori derivanti da restituzioni di merci e materie prime acquistate dai fornitori. Essi correggono indirettamente i costi degli acquisti.
• Abbuoni e sconti attivi: costituiscono riduzioni dei prezzi di acquisto pagati ai fornitori.
• Rimanenze finali di magazzino: sono le giacenze di merci, prodotti, ecc. esistenti in magazzino al termine del periodo amministrativo. La rimanenza finale di un anno costituisce la rimanenza iniziale dell’anno successivo.

La determinazione del valore delle rimanenze

La determinazione del valore delle rimanenze di magazzino è di fondamentale importanza per calcolare correttamente il reddito derivante dalla compravendita dei prodotti. Per rendercene conto consideriamo il seguente esempio.

Supponiamo che l’impresa:

• abbia acquistato tre prodotti a 100 euro l’uno;
• ne abbia venduto uno a 200 euro.

Il totale dei costi di acquisto dell’anno è pari a 300 euro, mentre il totale dei ricavi ammonta a 200 euro. La semplice differenza di tali costi e ricavi evidenzierebbe una perdita di 100 euro. Questa conclusione è sbagliata, perché nasce dal confronto fra dati non omogenei.

Sull’unico prodotto venduto l’azienda ha guadagnato in realtà 100 euro. I due prodotti in rimanenza a fine anno non sono ancora stati utilizzati: dunque il loro costo non deve essere considerato nel calcolo del reddito dell’esercizio, ma rinviato all’esercizio successivo.

Questa correzione del costo dei prodotti acquistati – detta «rettifica», su cui torneremo più avanti – non può però avvenire direttamente. Il totale dei costi di acquisto deve figurare chiaramente in bilancio: tale correzione allora si effettua inserendo come ricavo – anche se non si tratta propriamente di un ricavo, ma della «sospensione» di un costo – il valore delle rimanenze.

La valutazione delle rimanenze è un’operazione molto delicata, e soggetta – nei limiti della normativa – ad una certa discrezionalità, che può modificare in modo significativo il risultato del bilancio: è chiaro infatti che più alto è il valore attribuito alla rimanenze, più elevato risulta il reddito conseguito.

A conclusione di questa «carrellata» sui prospetti di bilancio, ricordiamo che negli schemi sopra presentati sono evidenziate in grigio le «poste di collegamento» tra stato patrimoniale e conto economico, e infatti sia il risultato di esercizio che le rimanenze finali figurano con pari importo nei due prospetti. Se ciò non avviene c’è qualcosa che non va…

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05/11/2015 - 10:58

Aggiornato il: 05/11/2015 - 10:58

1.2 - La contabilità generale


Non è possibile redigere il bilancio, ed in particolare il conto economico, senza tenere la contabilità.

La contabilità generale è un sistema di registrazione delle vicende aziendali. In particolare permette di tenere memoria di tutti i rapporti di scambio (vendite, acquisti, incassi, pagamenti, ecc.) fra l’azienda e l’ambiente esterno.

Scopo della contabilità generale è quello di arrivare al bilancio di esercizio, e quindi di misurare:

• attraverso il conto economico, il reddito prodotto dall’azienda ogni anno: ossia l’utile o la perdita derivanti dallo svolgimento della gestione;
• attraverso lo stato patrimoniale, il capitale disponibile in un dato momento: ovvero da un lato il complesso degli investimenti, e dall’altro l’insieme dei finanziamenti (debiti e capitale proprio).

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29/10/2015 - 11:27

Aggiornato il: 29/10/2015 - 11:27

1.2.1 - La partita doppia


La contabilità generale è tenuta con il metodo della «partita doppia». Esso richiede che i fatti aziendali siano esaminati sotto due aspetti:

• l’aspetto finanziario;
• l’aspetto economico-patrimoniale.

► Nell’aspetto finanziario si osservano le operazioni di gestione in termini di entrate ed uscite di moneta che esse provocano. Tali movimenti possono essere in denaro contante o rappresentati temporaneamente dal formarsi di crediti e debiti. Questi non sono altro che movimenti di denaro differiti nel tempo.
► Nell’aspetto economico l’attenzione è rivolta ai valori degli elementi chiave del processo produttivo: fattori produttivi e prodotti. Si indicano come costi i valori dei fattori produttivi acquistati e come ricavi i valori dei prodotti venduti.

L’aspetto economico rappresenta, per così dire, la causa che produce i movimenti finanziari.

Per la registrazione dei suddetti aspetti delle operazioni aziendali la contabilità generale utilizza particolari tabelle dette conti.

I conti si distinguono, pertanto, in due grandi classi:
• conti finanziari, che raccolgono i valori di entrate, uscite, debiti e crediti;
• conti economici (di reddito e patrimoniali), che raccolgono i valori dei costi e dei ricavi (o degli elementi che formano il patrimonio).

Così, ad esempio:

• nell’aspetto finanziario,
- il conto «cassa» indicherà i movimenti di denaro contante derivante dalle operazioni di gestione;
- il conto «clienti» i crediti che l’impresa deve riscuotere dai propri clienti;
- il conto «fornitori» i debiti che l’impresa deve pagare ai propri fornitori;

• nell’aspetto economico-patrimoniale,
- il conto «impianti» indicherà il valore del fattore produttivo impianti;
- il conto «merci c/vendite» il ricavo dei prodotti venduti.

La tenuta delle scritture secondo il metodo della partita doppia richiede che le rilevazioni contabili vengano redatte in due appositi registri:

• libro giornale: in esso vengono annotati, giorno per giorno, i movimenti contabili relativi ad ogni singola operazione di gestione;
• libro mastro: raccoglie i prospetti (i cosiddetti «mastrini») relativi a tutti i conti impiegati dall’impresa. In esso vengono quindi riportati i movimenti dei conti, corrispondenti alle registrazioni del libro giornale.

Se l’attività dell’impresa non richiede l’impiego di molti conti, le scritture contabili in partita doppia possono essere redatte utilizzando un unico registro chiamato «giornalmastro», il quale costituisce una sorta di fusione dei due libri sopra indicati.

È bene ricordare, comunque, che con il diffondersi degli strumenti informatici, oggi l’utilizzo dei sistemi contabili di rilevazione puramente cartacei è quasi nullo.

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05/11/2015 - 10:58

Aggiornato il: 05/11/2015 - 10:58

1.2.2 - Dalla contabilità al bilancio: un passaggio delicato


La corretta determinazione del reddito

Al 31 dicembre l’impresa deve «tirare le fila» delle rilevazioni contabili, al fine di determinare il reddito prodotto dalla gestione ed evidenziare il capitale utilizzato a questo scopo. Il reddito è indubbiamente la grandezza più «importante». La sua determinazione, sulla base dei valori raccolti nei conti, non è tuttavia immediata. Vediamo il perché, riflettendo su alcuni esempi.

► Durante l’anno l’imprenditore acquista un impianto per l’importo di centomila euro. Contabilmente ciò darà luogo ad un movimento finanziario (esborso) da un lato e ad un costo dall’altro.
►Tuttavia il costo sostenuto per l’impianto non può essere considerato interamente come costo dell’anno. L’impianto, infatti, verrà utilizzato come mezzo di produzione per diversi anni. Il suo costo, dunque, deve essere suddiviso fra i vari anni in cui l’impianto è utilizzato, e pertanto considerato solo in parte «di competenza» dell’esercizio.1
► Supponiamo che l’azienda abbia dei dipendenti. Quando essi cesseranno il rapporto di lavoro, l’azienda sarà tenuta per legge a versare loro la «liquidazione».

Quest’ultima costituisce evidentemente un costo per l’impresa. L’esborso finanziario corrispondente a tale costo avviene nell’anno in cui cessa il rapporto di lavoro. Tuttavia tale costo non può essere considerato tutto di competenza dell’anno in cui si manifesterà; per quote, esso appartiene anche agli anni precedenti.

Come è noto infatti, l’importo della liquidazione dipende dalla durata del rapporto di lavoro: matura cioè periodo per periodo. Al termine di ogni anno, allora, l’impresa deve conteggiare fra i propri costi la quota di costo per liquidazione maturata, anche se ancora non ha comportato esborsi finanziari.

Rettifica e integrazione

Cosa ci dicono questi esempi?

• Alcuni costi ed alcuni ricavi che hanno avuto manifestazione finanziaria sono eccedenti rispetto a quanto compete all’anno. Essi devono quindi essere decurtati, ripartendoli fra gli anni di competenza: questa operazione è detta «rettifica».
• Alcuni costi, pur non avendo avuto manifestazione finanziaria durante l’anno (cioè: anche se non sono stati ancora pagati), devono essere inclusi tra i costi dell’anno; ugualmente alcuni ricavi devono essere inclusi tra i ricavi dell’anno, pur non essendo stati incassati in tale periodo: questa operazione è detta «integrazione».

In conclusione: il reddito non si può determinare né come semplice somma algebrica dei ricavi e dei costi rilevati durante l’anno, né tanto meno come differenza tra entrate e uscite verificatesi nell’anno.

Le operazioni di rettifica e integrazione2 (che nel loro complesso sono dette operazioni, o scritture, di assestamento dei conti) sono quindi di fondamentale importanza per costruire correttamente il conto economico e lo stato patrimoniale che formano il bilancio dell’impresa.


1 Questo avviene attraverso la procedura tecnico-contabile dell’«ammortamento».
2 Oltre che di ammortamento.

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09/11/2015 - 12:33

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:33

1.3 - "Ripensare" il bilancio: la riclassificazione


Il bilancio non è, come credono alcuni, una pura formalità amministrativa.

Un bilancio ben fatto è come una radiografia: consente di controllare lo «stato di salute» dell’impresa.

Ma perché ciò sia possibile, i prospetti di bilancio devono essere rielaborati in modo da renderli più utili ai fini di analisi della gestione. Questa operazione è detta «riclassificazione».

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05/11/2015 - 10:59

Aggiornato il: 05/11/2015 - 10:59

1.3.1 - Lo Stato Patrimoniale riclassificato


Lo stato patrimoniale riclassificato

Lo stato patrimoniale riclassificato fornisce una diversa e più adeguata rappresentazione dei valori di impieghi (attività) e fonti di capitale (passività).

Il criterio più seguito per riclassificare tali valori è quello finanziario,1 che si basa sulla velocità di trasformazione in denaro (sotto forma di incassi e pagamenti) dei valori stessi.

Secondo il criterio finanziario possiamo quindi distinguere:

• gli impieghi di capitale (o attività) liquidabili in breve tempo (ad es. BOT semestrali) e quelli che rappresentano investimenti di durata pluriennale (ad es. impianti e macchinari);

• le fonti di capitale (o passività) da ripagare in breve tempo (ad es. lo scoperto di conto corrente) e quelle che rappresentano finanziamenti di durata pluriennale (ad es. il mutuo).

►I valori delle attività sono ripartiti in due grandi classi:2
• attività correnti (o capitale circolante lordo): esprimono investimenti destinati a ritornare in moneta in tempi brevi;
• attività immobilizzate (o capitale fisso): esprimono l’entità degli investimenti durevoli.

► I valori delle passività e del capitale netto sono suddivisi nelle seguenti classi:
• passività correnti: indicano il complesso dei debiti a breve termine;
• passività consolidate: indicano quello dei debiti a medio-lungo termine;
• capitale netto (o proprio): come detto più volte in precedenza, esprime la consistenza del patrimonio, di proprietà dell’imprenditore, utilizzato per finanziare l’azienda.

La tavola seguente riassume ed esemplifica quanto sopra, offrendo una rielaborazione dello stato patrimoniale già visto in precedenza (dati puramente indicativi, in migliaia di euro).

Alcune cose degne di puntualizzazione:
• Le poste rettificative dell’attivo, quali il fondo ammortamento, il fondo svalutazione crediti, ecc., sono portate direttamente in detrazione delle poste attive alle quali si riferiscono, per cui gli impianti sono al netto dei rispettivi fondi ammortamento.
• Le rimanenze di magazzino sono considerate attività correnti.
• I debiti a medio-lungo termine, oggetto di rimborso secondo rate periodiche, vanno distinti in due quote:
- le rate che scadono entro un anno: queste devono essere incluse fra le passività correnti;
- le rate restanti.
• Considerazioni analoghe valgono per i fondi spese future: ove possibile, occorre distinguere le quote che avranno presumibilmente manifestazione nell’anno successivo dalle altre di più lontana scadenza.


1 Esistono anche altri criteri, tra cui quello detto «funzionale» (usato solo per esigenze particolari), in cui le voci di bilancio sono riclassificate in base al loro collegamento con le diverse aree gestionali dell’impresa.
2  All’interno delle due classi si possono poi eventualmente operare ulteriori suddivisioni e raggruppamenti.

Schema di Stato Patrimoniale riclassificato

Stato patrimoniale riclassificato

Investimenti

Finanziamenti

 

 

 

 

Attività correnti

 

Passività correnti

 

 

 

 

 

Liquidità immediate:

 

Debiti verso fornitori

120

Cassa

5

Banche c/c passivi

450

Banche c/c attivi

40

Debiti diversi a breve

100

 

 

Altri fondi correnti

110

Liquidità differite:

 

Parte corrente mutui passivi

50

Crediti netti verso clienti

210

 

 

Crediti diversi a breve

75

Passività consolidate

 

 

 

 

 

Rimanenze:

 

Mutui passivi

450

Materie prime

60

Fondo T.F.R.

130

Semilavorati

130

 

 

Prodotti finiti

130

TOTALE FONTI ESTERNE

1410

 

 

 

 

Attività immobilizzate

 

Capitale netto

 

 

 

 

 

Immobilizzazioni materiali nette:

 

Capitale sociale

150

Terreni

140

Fondi di riserva

50

Fabbricati

450

Utili di esercizio

110

Impianti e macchinari

300

 

 

Mobili e arredi

80

TOTALE FONTI INTERNE

310

 

 

 

 

Immobilizzazioni immateriali:

 

 

 

Brevetti

60

 

 

Marchi

40

 

 

 

 

 

 

TOTALE IMPIEGHI

1720

TOTALE FONTI

1720

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09/11/2015 - 12:34

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:34

1.3.2 - Il Conto Economico riclassificato


Il conto economico da noi presentato in precedenza evidenzia solo il reddito, cioè il risultato, della gestione complessivamente svolta (utile o perdita di esercizio). Si parla appunto, in senso generale, di gestione «reddituale». Il conto economico riclassificato permette invece di distinguere, all’interno della gestione reddituale complessiva:

• il reddito della gestione ordinaria (o corrente);
• il reddito della gestione straordinaria.

► La gestione ordinaria (o corrente) comprende tutte le normali operazioni aziendali e si articola, a sua volta, in:
• gestione caratteristica, da cui derivano costi e ricavi relativi all’attività tipica dell’azienda (es. produzione di scarpe sportive);
• gestione accessorio-patrimoniale, che comporta costi e ricavi dovuti alle attività accessorie rispetto all’attività tipica (es. affitti attivi di immobili ad uso investimento);
• gestione finanziaria, volta al reperimento dei mezzi finanziari necessari all’attività d’impresa e all’impiego delle risorse eccedenti.1

► La gestione straordinaria comprende costi e ricavi che derivano da fenomeni di carattere episodico ed eccezionale, come ad esempio i furti, gli incendi, le vendite di «beni ammortizzabili» (cioè di beni che non sono stati acquisiti originariamente per essere venduti, come macchinari, impianti, ecc.), ad un prezzo diverso dal loro valore contabile.

È chiaro che è diverso ottenere un utile dalla gestione ordinaria o dalla gestione straordinaria: nel secondo caso è improbabile che l’utile si ripeta l’anno successivo!

Per questo è opportuno conoscere, distintamente:
• il reddito prodotto dalla gestione ordinaria e, in particolare:
quello prodotto dalla gestione caratteristica (il più importante, detto reddito operativo);
quello prodotto dalla gestione accessorio-patrimoniale;
quello prodotto dalla gestione finanziaria;
• il reddito prodotto dalla gestione straordinaria.

Non esiste uno schema di riclassificazione unico. In genere si utilizzano due modelli di riclassificazione:

• a valore aggiunto;
• a margine di contribuzione.

Di seguito proponiamo una riclassificazione del conto economico ottenuta utilizzando il primo modello. Esso evidenzia, appunto, un ulteriore risultato intermedio rispetto a quelli già menzionati: il valore aggiunto.

Il valore aggiunto viene calcolato come differenza tra il valore della produzione ottenuta nell’esercizio ed il costo dei fattori produttivi (materie prime e servizi) acquisiti all’esterno ed impiegati per ottenere quella produzione.

La sua determinazione consente di valutare quanto valore l’impresa, attraverso i propri processi produttivi, è riuscita ad aggiungere alle risorse comprate da altri soggetti.


1 Da essa dipendono gli oneri dovuti al governo dei mezzi monetari.

Schema di Conto Economico riclassificato

Conto economico riclassificato «a valore aggiunto»

Ricavi vendita prodotti

2370

 

 

 

Abbuoni e sconti passivi

-8

Resi su vendite

-20

=

Ricavi netti di vendita (produzione venduta)

2342

 

 

 

Rimanenze iniziali semilavorati

-100

+

Rimanenze finali semilavorati

130

Rimanenze iniziali prodotti finiti

-120

+

Rimanenze finali prodotti finiti

130

=

Produzione ottenuta nell’esercizio

2382

 

 

 

Consumi materie prime:

 

 

rimanenze iniziali materie prime                                                     -80

 

 

acquisti materie prime                                                                -1100

 

 

rimanenze finali materie prime                                                         60

 

 

sconti e abbuoni attivi                                                                         3

 

 

resi su acquisti                                                                                    5

 

 

Totale consumi materie prime

-1112

Spese generali (per prestazioni di servizi)

160

=

Valore aggiunto

1110

 

 

 

Costo del personale

-630

Quota fondo T.F.R.

-15

Ammortamenti

-155

Quota fondo svalutazione crediti

-10

Quota altri fondi

-5

=

Reddito operativo (della gestione caratteristica)

295

 

 

 

Reddito della gestione accessorio-patrimoniale:

 

 

Oneri diversi (di tipo accessorio e patrimoniale)                            -5

 

 

Proventi vari (di tipo accessorio e patrimoniale)                            25

 

 

Totale reddito della gestione accessorio-patrimoniale

20

 

 

 

Reddito della gestione finanziaria:

 

 

Oneri finanziari                                                                              -150

 

 

Proventi finanziari                                                                             20

 

 

Totale reddito della gestione finanziaria

-130

=

Reddito della gestione ordinaria

185

+

 

 

 

Reddito della gestione straordinaria:

 

 

Proventi straordinari                                                                         10

 

 

Costi straordinari                                                                               -5

 

 

Totale reddito della gestione straordinaria

5

=

Reddito al lordo delle imposte

190

Imposte sul reddito

-80

=

Utile di esercizio

110

 

Conto Economico «a margine di contribuzione»

Come accennato, il conto economico può essere «ristrutturato» anche in modo diverso: ad esempio «a margine di contribuzione».

Se torniamo un attimo indietro ci ricorderemo l’importanza di determinare il «punto di pareggio», la soglia critica di produzione e vendita da superare se vogliamo sperare di guadagnare qualcosa.

Per determinare questa soglia, abbiamo detto, è necessario distinguere i costi in fissi e variabili.

Ecco allora l’utilità di un conto economico come quello a margine di contribuzione, che non solo individui il reddito operativo – il quale resta comunque il fulcro di ogni conto economico riclassificato – ma che sappia anche separare i costi in relazione al loro grado di variabilità. Attraverso un tale conto economico, il calcolo del punto di pareggio sarà pressoché immediato.

Anche se estremamente utile, il conto economico a margine di contribuzione non è però di facile costruzione. E questo perché non è facile distinguere in modo esatto i costi variabili dai costi fissi. Occorre pertanto «arrangiarci», sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza.

A tal fine possiamo pensare di considerare fisse le seguenti voci di costo:

• salari e stipendi;
• ammortamenti;
• fitti, canoni, ecc.;
• spese generali e di amministrazione, pubblicità, formazione, ricerca e sviluppo, ecc.

Tutti i restanti costi li potremo considerare sostanzialmente variabili.

Si badi bene comunque: il conto economico a margine di contribuzione non è «migliore» del modello a valore aggiunto. Ogni modello offre informazioni per rispondere a domande diverse.

► Evidenziando il margine di contribuzione si punta l’indice sul «fatturato critico». A più riprese, abbiamo visto quanto sia importante per un aspirante imprenditore conoscere tale soglia.

► Evidenziando il valore aggiunto, invece, si pone in evidenza la differenza di valore che esiste, ad esempio, fra il «pane» e la «farina» con cui è fatto quel pane. Il pane infatti è prodotto con la farina, ma se è fatto bene ha un valore superiore a quello della farina. Quindi, quanto più valore riusciamo ad aggiungere alle materie – la farina – e ai servizi impiegati nella produzione, tanto più saremo meno in grado di «coprire» tutti gli altri costi che comunque la produzione comporta, e assicurarci un congruo profitto. Al contrario se il nostro pane vale poco più (o addirittura meno) della farina con cui è fatto, avremo difficoltà a coprire i costi di produzione.

Perciò ogni imprenditore deve conoscere bene anche quanto valore aggiunto è in grado di creare.

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09/11/2015 - 12:36

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:36

1.4 - Il bilancio europeo


Ricordiamo che il Decreto Legislativo 127/91 ha disposto anche in Italia le modalità di attuazione delle norme comunitarie in materia di «conti annuali» delle imprese (IV Direttiva CEE del 1978). Tali norme sono entrate in vigore, per la stragrande maggioranza delle imprese, con i bilanci del 1993; esse si applicano di regola a tutte le società di capitali1,  mentre per le imprese individuali e le società di persone l’obbligo concerne esclusivamente l’utilizzo dei criteri di valutazione imposti da detta normativa.

Presentiamo qui di seguito i prospetti di stato patrimoniale e conto economico imposti dalla normativa europea al fine di consentire una maggiore ed immediata comparazione tra i bilanci degli operatori economici appartenenti ai diversi Paesi UE, con le eventuali modifiche successivamente apportate dalla legislazione nazionale. Tali prospetti sono riportati rispettivamente negli articoli 2424 (lo stato patrimoniale) e 2425 (il conto economico) del codice civile.

Come si vede i prospetti «comunitari», rispetto a quelli che abbiamo chiamato «tradizionali», sono molto più vicini agli schemi riclassificati visti in precedenza, imponendo in molti casi la rappresentazione di poste già al netto dei rispettivi elementi rettificativi.2


1 Eccezion fatta per le imprese soggette a normative speciali, come ad esempio le imprese di assicurazione, che devono utilizzare schemi di bilancio specifici.
2 I bilanci comunitari, presentati di seguito, sono in forma completa. Tuttavia, ai sensi dell’art. 2435 bis c.c. le imprese possono redigere i nuovi bilanci anche in forma abbreviata quando, nel primo esercizio o, successivamente, per due esercizi consecutivi non abbiano superato due dei seguenti limiti:
a) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4.400.000 euro;
b) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 8.800.000 euro;
c) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 50 unità.
Dal 1.1.2004, per poter redigere il bilancio in forma abbreviata occorre anche che le imprese non abbiano emesso titoli negoziati sui mercati regolamentati.

Schema di Stato Patrimoniale comunitario

Stato patrimoniale «comunitario»

Attività

A) CREDITI VERSO SOCI PER VERSAMENTI ANCORA DOVUTI,

con separata indicazione della parte già richiamata

B) IMMOBILIZZAZIONI,

con separata indicazione di quelle concesse in locazione finanziaria

I – Immobilizzazioni immateriali:

1)   costi di impianto e di ampliamento
2)   costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità
3)   diritti di brevetto industriale e di utilizzazione delle opere dell’ingegno
4)   concessioni, licenze, marchi e diritti simili
5)   avviamento
6)   immobilizzazioni in corso e acconti
7)   altre

TOTALE

II – Immobilizzazioni materiali:

1)   terreni e fabbricati
2)   impianti e macchinario
3)   attrezzature industriali e commerciali
4)   altri beni
5)   immobilizzazioni in corso e acconti

TOTALE

III – Immobilizzazioni finanziarie,

con separata indicazione, per ciascuna voce dei crediti, degli importi esigibili entro l’esercizio successivo:

1.    partecipazioni in:
       a) imprese controllate
       b) imprese collegate
       c) imprese controllanti
       d) altre imprese

2.    crediti:
       a) verso imprese controllate
       b) verso imprese collegate
       c) verso controllanti
       d) verso altri

3.    altri titoli

4.    azioni proprie, con indicazione anche del valore nominale complessivo

TOTALE

TOTALE IMMOBILIZZAZIONI (B)

 

C) ATTIVO CIRCOLANTE

I – Rimanenze

1)   materie prime, sussidiarie e di consumo
2)   prodotti in corso di lavorazione e semilavorati
3)   lavori in corso su ordinazione
4)   prodotti finiti e merci
5)   acconti

TOTALE

 

II – Crediti, con separata indicazione, per ciascuna voce, degli importi esigibili oltre l’esercizio successivo:

1)   verso clienti
2)   verso imprese controllate
3)   verso imprese collegate
4)   verso controllanti
4-bis) crediti tributari
4-ter) imposte anticipate
5)   verso altri

TOTALE

III – Attività finanziarie che non

costituiscono immobilizzazioni:

1)   partecipazioni in imprese controllate
2)   partecipazioni in imprese collegate
3)   partecipazioni in imprese controllanti
4)   altre partecipazioni
5)   azioni proprie, con indicazione anche del valore nominale complessivo
6)   altri titoli

TOTALE

 

IV – Disponibilità liquide:

7)   depositi bancari e postali
8)   assegni
9)   denaro e valori in cassa

TOTALE

TOTALE ATTIVO CIRCOLANTE (C)

(D) RATEI E RISCONTI,

con separata indicazione del disaggio su prestiti

 

Passività

A) PATRIMONIO NETTO:

I     Capitale
II    Riserva da sovrapprezzo delle azioni
III   Riserve di rivalutazione
IV   Riserva legale
V     Riserva per azioni proprie in portafoglio
VI   Riserve statutarie
VII  Altre riserve, distintamente indicate
VIII Utili (perdite) portati a nuovo
IX   Utile (perdita) dell’esercizio

TOTALE

B) FONDI PER RISCHI ED ONERI

1)   per trattamento di quiescenza e obblighi simili
2)   per imposte, anche differite
3)   altri

TOTALE

C) TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO

D) DEBITI,

con separata indicazione, per ciascuna voce, degli importi esigibili oltre l’esercizio successivo:

a)   obbligazioni
b)   obbligazioni convertibili
c)    debiti verso soci per finanziamenti
d)   debiti verso banche
e)   debiti verso altri finanziatori
f)    acconti
g)   debiti verso fornitori
h)   debiti rappresentati da titoli di credito
i)     debiti verso imprese controllate
j)    debiti verso imprese collegate
k)    debiti verso controllanti
l)     debiti tributari
m)   debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale
n)   altri debiti

TOTALE

E) RATEI E RISCONTI,

con separata indicazione dell’aggio su prestiti

Schema di Conto Economico comunitario

Conto economico «comunitario»

A) VALORE DELLA PRODUZIONE

1)   ricavi delle vendite e delle prestazioni
2)   variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti
3)   variazione dei lavori in corso su ordinazione
4)   incrementi di immobilizzazione per lavori interni
5)   altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio

TOTALE

B) COSTI DELLA PRODUZIONE

6)   per materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci
7)   per servizi
8)   per godimento di beni di terzi
9)   per il personale:
a)    salari e stipendi
b)    oneri sociali
c)    trattamento di fine rapporto
d)    trattamento di quiescenza e simili
e)    altri costi

10) ammortamenti e svalutazioni:
a)    ammortamento delle immobilizzazioni immateriali
b)    ammortamento delle immobilizzazioni materiali
c)    altre svalutazioni delle immobilizzazioni
d)    svalutazioni dei crediti compresi nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide

11) variazioni delle rimanenze di materie prime, sussidiarie, di consumo e merci
12) accantonamenti per rischi
13) altri accantonamenti
14) oneri diversi di gestione

TOTALE

DIFFERENZA TRA VALORE E COSTI DELLA PRODUZIONE (A B)

C) PROVENTI E ONERI FINANZIARI

15) proventi da partecipazioni, con separata indicazione di quelli relativi ad imprese controllate e collegate
16) altri proventi finanziari:
a)    da crediti iscritti nelle immobilizzazioni, con separata indicazione di quelli da imprese controllate e collegate e di quelli da controllanti
b)    da titoli iscritti nelle immobilizzazioni che non costituiscono partecipazioni
c)    da titoli iscritti nell’attivo circolante che non costituiscono partecipazioni
d)    proventi diversi dai precedenti, con separata indicazione di quelli da imprese controllate e collegate e di quelli da controllanti

17) interessi e altri oneri finanziari, con separata indicazione di quelli verso imprese controllate e collegate e verso controllanti
17 bis) utili e perdite su cambi

TOTALE (15+16-17±17 bis)

 

 

D) RETTIFICHE DI VALORE DI ATTIVITÀ FINANZIARIE

18) rivalutazioni:
a)    di partecipazioni
b)    di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni
c)    di titoli iscritti all’attivo circolante che non costituiscono partecipazioni

19) svalutazioni:
a)    di partecipazioni
b)    di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni
c)    di titoli iscritti nell’attivo circolante che non costituiscono partecipazioni

TOTALE DELLE RETTIFICHE (18 – 19)

E) PROVENTI E ONERI STRAORDINARI

20) proventi, con separata indicazione delle plusvalenze da alienazioni i cui ricavi non sono iscrivibili al n. 5)
21) oneri, con separata indicazione delle minusvalenze da alienazioni, i cui effetti contabili non sono iscrivibili al n. 14), e delle imposte relative a esercizi precedenti

TOTALE DELLE PARTITE STRAORDINARIE (20 – 21)

RISULTATO PRIMA DELLE IMPOSTE (A – B ± C ± D ± E)

22) imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate

23) UTILE (PERDITA) DELL’ESERCIZIO

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09/11/2015 - 12:36

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:36

2 - La gestione aziendale


Gli strumenti per tenere sotto controllo l’andamento dell’azienda

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27/10/2015 - 15:47

Aggiornato il: 27/10/2015 - 15:47

2.1 - Il controllo di gestione


Tenere i conti e fare il bilancio non è sufficiente. La gestione aziendale ha bisogno di dati e informazioni che bilancio e contabilità generale, da soli, non possono dare.

Infatti nel corso della gestione ci troveremo a porci domande come queste:

• quanto mi costa produrre «x»?
• il reparto manutenzione lavora bene o potrebbe fare meglio?
• quanto posso sperare di guadagnare l’anno prossimo?

Per trovare risposta a tali domande ci dovremo avvalere di tutta una serie di strumenti e di tecniche gestionali che vengono complessivamente denominate «controllo di gestione».

Cos'è il controllo di gestione

È un processo direzionale che presuppone:

• la formulazione di obiettivi – espressi in termini quantitativi – e di programmi di azione, validi nel breve periodo e coerenti con le linee strategiche, ossia con le decisioni di fondo dell’impresa (a chi, cosa, come...);
• la misurazione periodica dei risultati effettivamente conseguiti e il confronto con gli obiettivi prefissati;
• l’analisi degli scostamenti rispetto alle previsioni, l’individuazione delle loro cause e l’adozione di opportune azioni correttive.

L’introduzione di un processo di controllo di gestione richiede un notevole sforzo di razionalizzazione a livello organizzativo, compensato tuttavia dai vantaggi ottenibili. Esso rappresenta uno strumento di guida insostituibile, in quanto:

• permette il coordinamento dei vari organi aziendali,
• fornisce i parametri economici e finanziari con cui confrontare i risultati ottenuti.

Il controllo di gestione, per essere efficace, necessita di adeguati strumenti contabili.


Gli strumenti contabili del controllo di gestione

Tali strumenti sono molteplici ma, in sintesi, possono ricondursi ai seguenti:

• la contabilità generale ed il bilancio di esercizio;
• la contabilità analitica;
• il budget ed i costi standard.

► La contabilità generale fornisce le necessarie informazioni sulle operazioni di gestione che vengono tenute con il mercato. Le rilevazioni contabili trovano la loro sintesi nel bilancio di esercizio, che è il documento che illustra il risultato complessivo della gestione (utile o perdita di esercizio) ed il patrimonio a disposizione dell’impresa.

► La contabilità analitica non studia l’azienda soltanto nel suo complesso, ma evidenzia i costi ed i ricavi di ogni sua singola «parte» o «centro di responsabilità».
La contabilità analitica riguarda le operazioni «interne» di gestione: serve per conoscere i costi dei diversi prodotti, dei singoli reparti e per sapere se l’utilizzo dei fattori produttivi acquisiti è corretto o dà luogo a degli sprechi.

► Il budget è un bilancio preventivo di breve periodo. La sua costruzione richiede la conoscenza di costi preventivi o «standard», attraverso i quali stabilire quanto dovrebbe costare il processo produttivo in determinate condizioni operative. Il budget ha una duplice funzione: serve per guidare le azioni future e, a consuntivo, per controllare se tutto è andato come previsto.

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05/11/2015 - 11:03

Aggiornato il: 05/11/2015 - 11:03

2.2 - Gli indicatori della gestione aziendale


Gli strumenti di controllo che abbiamo visto fino ad ora, per quanto utilissimi, rischiano di risultare complicati per i «non addetti ai lavori», cioè di dare troppe informazioni tutte insieme.

Per il neo-imprenditore, inesperto di concetti economico-aziendali, l’ideale sarebbe avere a disposizione qualcosa di più semplice ed immediato.

Per chiarirci le idee pensiamo al comportamento di un normale automobilista. Questi avrà, nella generalità dei casi, degli obiettivi definiti in termini quantitativi: ad esempio, percorrere i circa 350 km del tratto autostradale Firenze-Milano in 3 o 4 ore.

Durante il tragitto consulterà, ad intervalli più o meno brevi, gli indicatori a disposizione sul cruscotto della sua auto. Ciò gli permetterà di conoscere lo stato di salute del veicolo e, quindi, di avere la sicurezza di raggiungere la sua meta senza intoppi.

La logica del cruscotto dell’automobile è elementare, e consiste nel fornire quei pochi ed essenziali indicatori che mettono il guidatore in condizione di rendersi conto del buon funzionamento del mezzo: basta un colpo d’occhio per rendersi conto, ad esempio, se la benzina è sufficiente, se la temperatura dell’acqua è normale e così via.

È possibile creare un qualcosa di analogo per la nostra azienda? La risposta a questa domanda è positiva ed è rappresentata dal «tableau de bord» o «cruscotto direzionale».

► Il cruscotto direzionale è un insieme di rapporti o indici, che devono essere sempre tenuti sotto osservazione da parte dell’imprenditore.

Ma cosa sono gli indici?

► Un indice è un quoziente, o rapporto, del tipo A/B, dove A e B sono grandezze significative della gestione economica e finanziaria (es. utile netto/capitale proprio).

Vediamo ora di individuare gli indici più «importanti» per guidare la nostra azienda.

Il rendimento del capitale di rischio

Il rendimento del capitale di rischio (o ROE)1 è dato dal rapporto tra reddito netto di esercizio e capitale proprio (o netto):

reddito netto di esercizio
____________________________

capitale proprio

Questo indicatore ci dice, appunto, quanto ci rende ogni euro che investiamo nell’impresa.

Il ROE ci dà delle utili indicazioni:

• al momento della partenza (in cui dobbiamo decidere se investire o meno nell’impresa), perché ci permette di confrontare la redditività di questo investimento con quella di altri investimenti alternativi: se il ROE prevede ad esempio che questa attività renda il 2%, sarebbe meglio acquistare dei titoli che offrono il 4%;
• nel corso della gestione, perché ci dà modo di vedere se l’andamento aziendale segue un trend positivo o se c’è qualcosa che non va: è evidente, ad esempio, che se l’impresa ha avuto un ROE del 18% nei tre anni precedenti ed ora è scesa al 12%, c’è qualcosa che non va.


1 Dall’inglese Return on Equity, «rendimento del capitale proprio».

Il rendimento del capitale globalmente investito

Il rendimento del capitale globalmente investito (o ROI)1 dato dal rapporto tra reddito operativo (che è il risultato dell’attività propria dell’azienda) e capitale investito (totale attivo netto, cioè capitale proprio più capitale di terzi):

reddito operativo
___________________________

capitale investito

Il ROI misura l’efficienza della gestione caratteristica: anch’esso ci dice, in sostanza, quanto rende 1 euro investito nella nostra azienda.

Ma il ROI si differenzia dal ROE. Quest’ultimo, infatti, a denominatore del rapporto tiene conto soltanto degli investimenti finanziati con capitale di rischio (quello dell’imprenditore) e non anche di quelli finanziati con denaro preso a prestito. Inoltre, a nominatore, nel ROI si ha il reddito operativo,2 cioè un reddito a cui non sono stati ancora sottratti oneri finanziari, proventi straordinari e imposte.


1Dall’inglese Return on Investment, «rendimento dell’investimento».
2 Ricordiamo che il termine «reddito» è neutro e significa risultato: si parla di «utile» se il risultato è positivo e di «perdita» se il risultato è negativo.

Il rendimento delle vendite

Il rendimento delle vendite (o ROS)1 è dato dal rapporto tra reddito operativo e fatturato:

reddito operativo
________________________

fatturato

Il ROS misura il rendimento medio di ogni vendita: ci dice cioè, in termini percentuali, qual è mediamente il margine lordo di profitto sulle vendite. In sostanza ci dice quanto guadagniamo su ogni euro di prodotto che riusciamo a vendere.

Per questo può essere un indicatore molto importante dell’andamento aziendale. Il suo andamento deve essere attentamente valutato.


1Dall’inglese Return on Sales, «rendimento delle vendite».

La rotazione del capitale investito o «turnover aziendale»

La rotazione del capitale investito (detta anche «turnover del capitale») è data dal rapporto tra il fatturato ed il capitale investito:

fatturato
_______________________

capitale investito

Il turnover indica quante volte il capitale investito nell’impresa ritorna in forma liquida nel periodo di riferimento. Esso, quindi, ci dice se mediamente abbiamo una rotazione degli investimenti più o meno rapida: più alto sarà il risultato della frazione più saremo stati bravi a gestire le nostre vendite in relazione al capitale investito.

Ovviamente non si tratta solo di bravura: molto dipende anche dal tipo di attività che svolgiamo. Un turnover alto è tipico di imprese che vendono a bassi margini, come i grandi magazzini. Al contrario i negozi che vendono oggetti di lusso hanno un tasso di rotazione del capitale più modesto.

Il triangolo di «Du Pont»

Come si può notare dallo schema il ROI (reddito operativo/capitale investito) si ottiene moltiplicando il ROS (reddito operativo/fatturato) per il turnover di capitale (fatturato/capitale investito):

ROI = ROS x TURNOVER

Questo significa che la redditività di un’impresa dipende:

• sia dal margine sulle vendite (ROS, quanto guadagniamo su ogni prodotto o servizio venduto),
• sia dalla velocità di ritorno del capitale investito (quante vendite riusciamo a fare).

L’ideale, ovviamente, sarebbe riuscire ad accompagnare un buon margine sulle vendite (divario prezzi-costi, misurato dal ROS) ad un’alta rotazione delle vendite stesse (turnover).

Sono obiettivi, però, difficilmente conciliabili.

Ecco perché, di solito, l’imprenditore dovrà scegliere su cosa puntare:

• alti prezzi per un numero di prodotti venduti relativamente basso o, al contrario,
• molte vendite a prezzi contenuti.

La scelta dipenderà da molti fattori, primo fra tutti il comportamento dei concorrenti.

L’importante, comunque, è porsi un obiettivo in termini di ROI e cercare di raggiungerlo, combinando opportunamente le sue due componenti: il ROS ed il turnover, appunto.

Il grado di indebitamento

Un altro indicatore da tenere sotto controllo è rappresentato dal «grado di indebitamento» dell’azienda, dato dal rapporto tra capitale di terzi e capitale proprio (o netto):

capitale di terzi
__________________________

capitale proprio

Esso esprime cioè la proporzione tra capitali presi a prestito e capitali di proprietà dell’imprenditore.

Anche l’indebitamento, seppure indirettamente, influenza il nostro reddito finale. Per questo è importante avere a disposizione un indice che ci dica lo stato di salute finanziaria della nostra impresa.

Il costo del denaro

Il rapporto tra capitale di terzi (i debiti) e capitale proprio ci dice in che relazione stanno i nostri investimenti con quelli di terzi. Non ci dice, però, quanto ci costa il denaro preso a prestito. Per sapere questo ci serve un altro indice: il costo del denaro, più propriamente detto costo dell’indebitamento (o ROD).1  Esso misura il costo medio dei capitali presi a prestito ed è dato dal rapporto tra oneri finanziari 2 e capitale di terzi:

oneri finanziari
_______________________

capitale di terzi

Il ROD ci dice appunto quanto ci costa, mediamente, 1 euro preso a prestito.


1 Dall’inglese Return on Debts.
2Ricordiamo che gli «oneri finanziari» sono tutti gli oneri legati ad operazioni finanziarie con i terzi, cioè ad esempio gli interessi passivi o gli interessi sui mutui o prestiti bancari.

La formula della «leva finanziaria»

Tutte le grandezze viste sinora sono collegate da precise relazioni, secondo una formula detta della «leva finanziaria»:

ROE = ROI  + ROI - ROD x  capitale di terzi / capitale proprio

Senza addentrarci troppo in tecnicismi, questa formula dimostra che il ROE tende a crescere quanto più il ROI risulta maggiore del tasso medio di interesse sul capitale di terzi. Fino a che il ROI sarà maggiore del ROD, dunque, converrà – teoricamente – prendere denaro a prestito: in tal caso, infatti, si dice che «i mezzi di terzi lavorano per i mezzi propri».

In parole povere, conviene finanziare l’attività continuando a contrarre debiti (ammesso che ciò sia possibile) fintanto che il costo del denaro preso a prestito, cioè il tasso di interesse, è inferiore al rendimento che si può ottenere investendo tale denaro nell’impresa.

Facciamo un esempio:

• conviene prendere 1 euro a prestito, se ci costa 7 centesimi (ROD) e si investe in un’attività di impresa che rende 15 centesimi (ROI).
• non conviene prendere 1 euro a prestito, se ci costa 17 centesimi (ROD) e si investe in un’attività di impresa che rende 15 centesimi (ROI).

L’utile o la perdita di esercizio dipendono, infatti, sia da quanto rendono gli investimenti realizzati, sia dalla misura in cui tali investimenti sono finanziati con mezzi propri o di terzi.

Formule a parte, nella pratica non è così semplice: non si possono chiedere prestiti all’infinito. In ogni caso, aumentare le richieste di finanziamento comporta spesso un incremento non tollerabile del costo medio del denaro: più denaro si prende in prestito, più lo stesso verrà a costare (poiché crescono i rischi del finanziatore); c’è quindi un limite oltre il quale non è possibile spingersi.

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09/11/2015 - 12:38

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:38

2.3 - Gli indicatori della gestione finanziaria


Abbiamo visto quanto sia importante seguire l’andamento finanziario della gestione aziendale. Per questo il nostro cruscotto direzionale dovrà contenere anche degli indicatori che misurino lo stato di salute della nostra «gestione finanziaria».

L'indice di liquidità

Un primo indice al quale guardare è detto indice di liquidità (o di disponibilità) e si basa sul rapporto fra attività correnti e passività correnti:

attività correnti
________________________

passività correnti

Tale indice esprime in sintesi la capacità dell’azienda di far fronte ai propri impegni di pagamento nel breve periodo. Si ritiene comunemente che l’impresa si trovi in condizioni di equilibrio quando tale indice presenta valori intorno a 2.

Indicazioni analoghe a quelle dell’indice di disponibilità si ottengono facendo la differenza tra attività correnti e passività correnti. Il «margine» che si ottiene si chiama «capitale circolante netto finanziario». Anch’esso, per i motivi in precedenza indicati, dovrebbe essere congruamente positivo.

Il margine di tesoreria

Sempre analizzando le condizioni di liquidità dell’impresa, è utile ricordare il margine di tesoreria (detto anche «acid test»):

cassa + banca + crediti a breve
__________________________________

passività correnti

Esso serve ad indicarci se le risorse monetarie che abbiamo a disposizione (la cassa, i conti correnti ed i crediti a breve) sono sufficienti per far fronte ai debiti che dovremo pagare nel breve-brevissimo periodo.

Anche se, ovviamente, non esistono regole precise, in genere è consigliabile che questo indice si mantenga sempre maggiore di 1.

Il margine di struttura

Un altro indice finanziario molto importante è quello del margine di struttura, così costruito:

capitale di rischio
__________________________

immobilizzazioni

Il margine di struttura rappresenta in sostanza una sorta di indicatore del «rischio finanziario» della nostra impresa, ossia del rischio connesso ad un eccessivo indebitamento. Va pertanto interpretato come «freno» alla manovra di leva finanziaria.

L’ideale, anche qui, sarebbe che il rapporto non fosse inferiore ad 1. Il perché già lo sappiamo: è bene finanziare gli investimenti «immobilizzati», quanto più possibile, con capitale proprio.

Il rapporto debiti/fatturato

Un ultimo importante indice finanziario è dato dal rapporto debiti/fatturato:

debiti
____________________

fatturato

Come è facile intuire, è bene che questo indice abbia valori molto bassi.

In particolare, se il rapporto debiti/fatturato raggiunge o supera il valore di 1 la situazione viene descritta con un nome tragico e suggestivo: «punto di non ritorno».

Usare gli indicatori, ma anche il buonsenso

Quelli illustrati sono alcuni dei principali indicatori che possono servirci per tenere sotto controllo la nostra azienda: proprio come il cruscotto di guida ci serve quando andiamo in automobile. Gli indicatori sono certo molto utili, ed è quindi bene utilizzarli ed aggiornarli con frequenza.

È meglio, però, non affidarsi ad essi in modo esclusivo: se vediamo che «esce il fumo dal motore», anche se nel cruscotto non sembrano accendersi segnali di allarme, è sempre bene credere ai propri occhi e cercare al più presto un rimedio!

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29/10/2015 - 11:33

Aggiornato il: 29/10/2015 - 11:33

3 - La gestione contabile


Alcuni cenni sui libri e registri obbligatori previsti dai vari regimi contabili e dal Codice Civile

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27/10/2015 - 15:47

Aggiornato il: 27/10/2015 - 15:47

3.1 - Le tre funzioni della contabilità


Le tre funzioni della contabilità

La contabilità dell’impresa ha tre funzioni principali:

• controllo di gestione, per permettere all’imprenditore di essere costantemente informato sull’andamento della propria azienda e per gestirla nel modo migliore;
• comunicazione, per divulgare le operazioni e i risultati aziendali a tutti i soggetti pubblici (Stato, Amministrazioni locali, ecc.) e privati (dipendenti, azionisti, clienti, fornitori, ecc.) realmente o potenzialmente interessati alle vicende dell’impresa;1
• adempimento di obblighi normativi, per rispettare gli adempimenti definiti dalla normativa civilistica e fiscale.

Riguardo alla prima funzione, l’imprenditore può organizzare, in teoria, la propria contabilità come ritiene opportuno.
In merito alla seconda funzione, l’impresa si propone al mercato attraverso il principale strumento di sintesi contabile: il bilancio.
Riguardo alla terza funzione, le norme civilistiche e fiscali impongono determinati obblighi contabili, che condizionano di fatto le scelte dell’imprenditore e che variano – come vedremo più avanti – in ragione della natura e dimensione dell’impresa o della sua veste giuridica, nonché del tipo di attività svolta (per la quale possono essere imposti obblighi specifici, anche in termini di tenuta di particolari registri).

Una premessa è d’obbligo: le normative fiscali sono quanto mai intricate e cambiano continuamente di anno in anno (anzi… di giorno in giorno). Il momento in cui si scrive non fa eccezione: sono state recentemente approvate una serie di novità, e molte altre sono imminenti.

Data la complessità dell’argomento, ripetiamo anche qui quanto detto in altre parti del volume: a meno che non si abbia una competenza specifica, è sempre opportuno affidarsi a un professionista di fiducia. Senza la pretesa di far diventare chi legge un novello commercialista, le informazioni fornite di seguito servono per poter «parlare» con l’esperto con qualche cognizione di causa.

Di seguito esamineremo le scritture contabili complessivamente intese, in un’ottica prevalentemente fiscale, ma tentando anche di operare un raccordo con le norme previste dal codice civile e dalla legislazione sul lavoro.

In sintesi, dobbiamo capire quali scritture debbano essere tenute in base alla dimensione ed al tipo di attività, ricordando le due principali possibilità che si offrono a chi è in procinto di «mettersi in proprio»: iniziare una attività di impresa o una attività di lavoro autonomo.2

A tale fine, è necessario presentare un breve riepilogo per individuare quali forme di reddito sono «imponibili» (cioè tassabili) secondo la vigente normativa fiscale.


1  Detti anche stakeholder o «portatori di interessi».
2  Che si riduce in pratica alla libera professione, dato che – come già accennato – i soggetti che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa (a progetto o meno), sono solo parzialmente autonomi essendo considerati lavoratori parasubordinati.

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09/11/2015 - 12:39

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:39

3.2 - Il reddito imponibile


Secondo il TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi),1 le tipologie di reddito imponibile sono le seguenti:

• redditi fondiari;2
• redditi di capitale;3
• redditi di lavoro dipendente4 e assimilati a quelli di lavoro dipendente;5
• redditi diversi;6
• redditi d’impresa;
• redditi di lavoro autonomo.

Concentriamoci sugli ultimi due tipi di reddito, quelli cioè che maggiormente ci interessano.

Il reddito d’impresa

Il reddito d’impresa (artt. 55-66 TUIR) deriva dallo svolgimento per professione abituale delle seguenti attività:

• attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi (ad esempio la fabbrica che produce scarpe, la centrale elettrica che eroga energia);
• attività intermediaria nella circolazione dei beni (ad esempio il grossista che compra le scarpe dalla fabbrica e le rivende al dettagliante, il dettagliante stesso);
• attività di trasporto per terra, acqua, aria (ad esempio il vettore che trasporta le scarpe dalla fabbrica al grossista e al dettagliante);
• attività bancaria o assicurativa;
• altre attività ausiliarie delle precedenti (ad esempio l’agenzia che fa la pubblicità alla fabbrica di scarpe, il meccanico che ripara i camion del trasportatore, l’impresa che fa le pulizie nel negozio del dettagliante di scarpe, ecc…);
• attività di allevamento, agricole e zootecniche;7
• sfruttamento di miniere e cave;
• prestazioni di servizi diverse da quelle precedenti, purché organizzate in forma di impresa;
• qualsiasi attività svolta da società commerciali.8

Il reddito da lavoro autonomo

Il reddito da lavoro autonomo (artt. 53-54 TUIR) è quello che deriva da:

• esercizio di arti e professioni in modo abituale (anche in forma associata): commercialisti, avvocati, ingegneri, architetti, notai, consulenti informatici, artisti, ecc.;
• utilizzazione economica, da parte dell’inventore o autore, di opere dell’ingegno (brevetti, disegni, opere letterarie, musicali, ecc.);
• utili da associazioni in partecipazione (nei casi di apporto di solo lavoro);
• utili spettanti ai fondatori e/o promotori di Società per Azioni, Società a Responsabilità Limitata, Società in Accomandita per Azioni;
• prestazioni sportive oggetto di contratto di lavoro autonomo.


1d.P.R. 917/86 e successive modifiche ed integrazioni.
2 Il reddito fondiario (artt. 25-43 TUIR) comprende:
fabbricati: gli immobili di proprietà sono tassati in base al maggior valore tra: - la loro rendita catastale; - il canone annuale percepito dalla loro locazione;
• terreni: sono tassati in base a: - reddito dominicale: relativo alla sola proprietà del terreno; - reddito agrario: relativo all’utilizzo produttivo del terreno;
• allevamento: il reddito di allevamento è determinato forfettariamente, in base ad apposite tabelle ministeriali, in relazione al tipo ed all’estensione del terreno utilizzato.
3 I redditi di capitale (artt. 44-48 TUIR) derivano dall’impiego di capitali di carattere finanziario, tra cui ad esempio:
• interessi da mutui, depositi e conti correnti; • dividendi delle azioni e utili da partecipazione in società soggette ad Ires; • proventi da obbligazioni; • rendite perpetue; • utili da associazioni in partecipazione (esclusi i casi di apporto di solo lavoro).
4 Il reddito da lavoro dipendente (artt. 49-51 TUIR) comprende: • redditi derivanti da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di altri; • indennità sostitutive di redditi da lavoro dipendente (cassa integrazione guadagni, indennità di maternità, indennità di disoccupazione, ecc…); • redditi da pensioni.
5 I redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (art. 52 TUIR) comprendono:
• borse di studio; • collaborazioni coordinate e continuative, collaborazioni a progetto (con retribuzione periodica prestabilita); • compensi dei lavoratori soci di cooperative di produzione e lavoro; • remunerazione del clero; • attività professionale intramuraria dei medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale; • indennità a parlamentari, consiglieri comunali, regionali e provinciali, amministratori locali, ecc.;
6 I redditi diversi (artt. 67-71 TUIR) comprendono i redditi e le plusvalenze – qualora non costituiscano redditi di capitale e non siano conseguiti nell’esercizio di impresa o di arti e professioni – derivanti da:
• cessione di immobili (fabbricati, terreni e terreni edificabili); • cessione di partecipazioni in società di persone o di capitali; • cessione di altri titoli, di valute estere e di metalli preziosi; • cessioni di contratti; • cessioni di aziende; • attività commerciali e attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente; • attività sportiva dilettantistica; • premi e vincite a lotterie, concorsi a premio, giochi, scommesse, ecc.
7 Se superiori a determinati limiti stabiliti periodicamente da un decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
8 Cioè da società che svolgono attività di «impresa commerciale», da non confondersi con i «commercianti» in senso stretto.

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09/11/2015 - 12:40

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:40

3.2.1 - Come si determina il reddito d'impresa


Il reddito d’impresa si determina come differenza tra le componenti positive e le componenti negative del reddito stesso.
Attraverso la disamina delle norme del TUIR si possono individuare, sinteticamente e senza pretesa di esaustività, le principali voci riferibili all’una ed all’altra categoria.

Le componenti positive di reddito sono:
• ricavi: sono rappresentati principalmente dalle vendite di beni o servizi in corso d’esercizio;
• plusvalenze patrimoniali: ad esempio la vendita di un macchinario usato ad un valore superiore al suo valore contabile;
• sopravvenienze attive: ad esempio la rinuncia ad incassare un credito da parte di un fornitore;
• proventi finanziari: per esempio gli interessi attivi maturati sui conti correnti (bancari o postali) o sui crediti (verso clienti o soggetti diversi);
• rivalutazioni: di immobili, di quote azionarie, ecc.
• variazione positiva delle rimanenze finali di merci, prodotti finiti, semilavorati, materie prime, rispetto alle esistenze iniziali delle stesse.

Le componenti negative di reddito sono:
• costi: categoria molto ampia; ad esempio, costi di acquisto delle merci, costi del personale ecc.;
• minusvalenze patrimoniali: ad esempio la vendita di un impianto usato ad un valore inferiore al suo valore contabile;
• sopravvenienze passive: ad esempio una multa, un risarcimento a terzi;
• oneri finanziari: ad esempio interessi passivi che maturano su debiti verso le banche, i fornitori, ecc.
• ammortamenti: rappresentano la quota del costo d’acquisto di alcuni beni aziendali ad utilità pluriennale che si fa incidere sul reddito dell’esercizio;
• accantonamenti: rappresentano quote di costi che si fanno pesare sul reddito d’esercizio in previsione di eventi futuri (es. quota fondo TFR-Trattamento Fine Rapporto);
• svalutazioni: di immobili, di quote azionarie, ecc.;
• imposte (alcuni tipi di imposte, in misura totale o parziale).

Il concetto di competenza economica

Prima di proseguire occorre chiarire un concetto fondamentale: quello della competenza economica.1

Esistono tre momenti attraverso i quali passa ogni singola operazione economica di un’impresa:

• il momento economico: il momento in cui si manifesta un costo (ad esempio per un acquisto) o un ricavo (ad esempio per una vendita);
• il momento di fatturazione: il momento – di rilievo fiscale – in cui il costo o il ricavo viene determinato con certezza e viene formalizzato in un documento con valore fiscale (la fattura);
• il momento finanziario: il momento in cui il costo viene effettivamente pagato o il ricavo viene effettivamente incassato.

Tali momenti, per un’impresa (a differenza per esempio di un consumatore privato che effettua in contanti un acquisto in un negozio) solitamente non coincidono.

Facciamo un esempio

Un grossista compra 1.000 scatole di scarpe dalla fabbrica: in tale istante si manifesta il costo di acquisto della merce (momento economico).
A questo seguirà il momento – non necessariamente contemporaneo – dell’emissione della fattura di vendita da parte della fabbrica (momento di fatturazione).
Ancora diverso potrà essere il momento del pagamento della fattura da parte del grossista (momento finanziario).
Analogamente, quando il grossista venderà 150 paia di scarpe al dettagliante si manifesterà il ricavo (momento economico).
Tuttavia, con molta probabilità, il grossista emetterà la fattura di vendita in un momento diverso dalla consegna della merce (momento di fatturazione).
In un altro momento ancora il grossista incasserà effettivamente l’importo di tale fattura (momento finanziario).

Il reddito d’impresa, a differenza di altri redditi, si determina secondo il principio della competenza economica: ovvero tenendo conto delle componenti positive e negative di competenza dell’esercizio (indipendentemente dall’effettivo momento di fatturazione e incasso o pagamento).

Da qui la necessità di effettuare a fine anno una serie di operazioni (dette rettifiche e integrazioni: v. cap. 12) attraverso scritture contabili di assestamento.2

Questo concetto, come vedremo più avanti, è stato recentemente oggetto di parziale e limitata modifica a livello fiscale per le imprese più «piccole».

La competenza economica si può determinare in relazione:
• ad un determinato evento;3
• al decorrere del tempo.4


1 Vedi in proposito il capitolo sul bilancio
2Ad esempio rilevazione delle rimanenze finali, dei ratei e risconti sia attivi che passivi, delle fatture da emettere e da ricevere, degli ammortamenti, degli accantonamenti, ecc.
3Le operazioni in cui la competenza economica si manifesta in relazione ad un determinato evento sono: • trasferimento bene: - beni mobili: consegna; - beni immobili: contratto di trasferimento; • prestazioni di servizi: - servizi non periodici: momento di ultimazione della prestazione; - servizi di durata pluriennale: in base allo stato di avanzamento; • proventi finanziari: - dividendi: al momento dell’incasso; • plusvalenze e minusvalenze: al momento del trasferimento dei beni; • sopravvenienze e insussistenze: al momento in cui vengono accertate.
4 Le operazioni in cui la competenza si manifesta in relazione al decorrere del tempo sono: • servizi periodici; • interessi attivi e passivi.

Le rilevazioni contabili

Come accennato all’inizio del capitolo, le rilevazioni dei fatti di gestione effettuate tramite le scritture contabili hanno diversi scopi: controllo di gestione, comunicazione a terzi e adempimento di obblighi civilistici e fiscali.

In particolare tali rilevazioni sono volte:

• ai fini civilistici: ad informare sui fatti di gestione sia l’imprenditore, sia i soggetti a lui legati e i terzi;
• ai fini fiscali: a determinare le componenti positive e negative di reddito.

L’esistenza di regole diverse tra contabilizzazione dei fatti di gestione e norme fiscali produce una conseguenza molto importante: la differenza fra risultato di esercizio (utile o perdita) contabile e risultato di esercizio fiscale.
Ciò a causa della presenza di:

• costi fiscalmente deducibili solo in parte (ad esempio costi per le autovetture ad uso promiscuo, costi per l’utilizzo di telefonia mobile, spese di rappresentanza);
• costi fiscalmente indeducibili per intero (ad esempio costi relativi a esercizi precedenti – e quindi non di competenza dell’esercizio di cui si sta determinando il reddito –, costi non direttamente afferenti all’attività d’impresa, imposte);
• ricavi fiscalmente imponibili solo in parte (ad esempio plusvalenze che, al verificarsi di determinate condizioni, possono essere rateizzate in più anni, contributi di particolari enti relativi a prestazioni di competenza di più esercizi);
• ricavi fiscalmente non imponibili per intero (ad esempio sopravvenienze attive dovute unicamente ad errori di registrazioni contabili ma non generatrici di reddito, come gli errori di accantonamento, negli anni precedenti, di imposte).

Ciò detto, passiamo ad esaminare le scritture previste in base ai diversi regimi contabili.


1 Il TUIR disciplina rigorosamente i criteri per determinare l’imponibilità dei componenti positivi di reddito e la deducibilità dei componenti negativi. Le scritture contabili rilevano i fatti di gestione nella loro «interezza» e in base al «momento» osservato (economico, finanziario-patrimoniale).

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09/11/2015 - 12:41

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:41

3.3 - La contabilità delle imprese


Tra le aziende è possibile distinguere quelle che operano

  • In contabilità ordinaria.
  • In contabilità semplificata.

Entrambe determinano il reddito in base al principio di competenza, ma differiscono per una serie di obblighi.

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09/11/2015 - 09:37

Aggiornato il: 09/11/2015 - 09:37

3.3.1 - La contabilità ordinaria


Contabilità ordinaria

In base all’inquadramento civilistico sono previsti i seguenti libri obbligatori (art. 2214 c.c.):
• Libro giornale: deve indicare giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa (art. 2216 c.c.). Riporta la rilevazione delle movimentazioni economiche (costi e ricavi), di quelle finanziarie (nei conti intestati a crediti, debiti e disponibilità liquide) e di quelle patrimoniali (nei conti delle immobilizzazioni);
• Libro degli inventari: deve contenere l’indicazione delle attività e delle passività dell’impresa (art. 2217 c.c.);
• Libro mastro: non previsto obbligatoriamente ma necessario per la sistematicità delle scritture contabili, implicitamente compreso fra le «altre scritture contabili» richieste dalla natura e dalla dimensione dell’impresa (art. 2214 c.c.);
• Bilancio d’esercizio;
• Bilancio consolidato (previsto per i «Gruppi di imprese»);
• tutti i «Libri sociali» previsti dal codice civile in relazione alla forma giuridica dell’impresa.1

Occorre inoltre:
• conservare gli originali di lettere, telegrammi, fatture ricevute e spedite;
• conservare per dieci anni tutti i documenti e le scritture contabili (art. 2220 c.c.);
• numerare progressivamente tutti i libri contabili: le scritture devono essere tenute secondo le norme di una ordinata contabilità, senza spazi in bianco; le cancellazioni devono eseguirsi in modo che le parole cancellate siano comunque leggibili (artt. 2215, 2219 c.c.).

In base all’inquadramento fiscale sono previsti i seguenti libri obbligatori:

• i Libri già previsti dalla normativa civilistica;
• Libro dei beni ammortizzabili;
• Libro Iva acquisti;
• Libro Iva vendite;
• Libro Iva corrispettivi (obbligatorio solo se si emettono scontrini o ricevute fiscali);
• Libro Iva riepilogativo (obbligatorio solo se vi sono più libri relativi alle vendite);2
• Scritture di magazzino, solo se l’impresa supera certe dimensioni;
• Libri obbligatori per particolari settori di attività e/o tipologie di operazioni.3

È prevista la possibilità di non tenere i Libri Iva ed il Libro dei beni ammortizzabili se:

• le registrazioni sono effettuate nel Libro giornale;
• su richiesta dell’Amministrazione Finanziaria sono forniti, in forma sistematica, gli stessi dati che si sarebbero dovuti annotare nei suddetti registri.

In base ad altre normative sono inoltre previste ulteriori scritture obbligatorie che variano anch’esse a seconda del settore di attività.4 Le più importanti, nel caso l’impresa si avvalga di dipendenti, sono:

• il Libro Unico del Lavoro (che ha recentemente sostituito il Libro Matricola, il Libro Presenze ed il Libro Paga);
• il Libro Infortuni.


1 Come il Libro dei verbali delle assemblee dei soci, il Libro delle adunanze del Consiglio di Amministrazione, il Libro soci, ecc. Si rammenta in proposito che l’art. 16 del d.l. 29 novembre 2008, n.185, convertito nella legge 28 gennaio 2009 n. 2, ha sancito l’abolizione del Libro soci per le Società a responsabilità limitata, attribuendo alla pubblicità del Registro Imprese, a far data dal 30 marzo 2009, pieno valore non solo verso i terzi, ma anche nei riguardi delle società stesse.
2Perché, per esempio, l’impresa emette più serie di fatture relative a diverse attività o diversi punti vendita, oppure emette sia fatture che scontrini; altrimenti la liquidazione Iva può essere fatta sul Libro Iva vendite).
3 Ad esempio:
• Registro dichiarazioni di intento (per gli esportatori abituali e i loro fornitori); • Registro carico e scarico beni usati (per le imprese che comprano e vendono beni usati);
• Registro stampati fiscali (per le imprese che vendono blocchi di fatture e ricevute fiscali); • Registro delle tirature (per le imprese che effettuano attività di editoria);
• Registro dei corrispettivi per mancato/irregolare funzionamento del registratore di cassa; • ecc.
4 Ad esempio il Libro dei noleggi in caso di attività di noleggio autovetture.

Chi deve tenere la contabilità ordinaria

Secondo la normativa civilistica:

• tutti gli imprenditori commerciali:
- persone fisiche;
- società di persone;
- società di capitali;
- enti commerciali;
- enti non commerciali (relativamente all’attività commerciale eventualmente svolta).

Secondo la normativa fiscale:

• società ed enti commerciali soggetti ad Ires;
• persone fisiche e società di persone che nell’esercizio precedente hanno conseguito ricavi annui superiori a:
-
 € 400.000, se esercitano attività di servizi;
-
 € 700.000, se esercitano altre attività.1


1 Limiti così aggiornati a seguito delle modifiche introdotte dall’articolo 7, comma 2, del d.l. 70/2011.

Cosa comporta la contabilità ordinaria

Tenere la contabilità ordinaria comporta:

• la rilevazione di ogni movimentazione riguardante l’impresa: quindi registrazione fatture emesse, d’acquisto, ricevute, altri costi o ricavi, prima nota, movimentazione dei conti cassa, banca, crediti verso clienti, debiti verso fornitori, crediti/debiti verso amministratori, crediti/debiti verso soci, immobilizzazioni, ecc.;
• la necessità di schede contabili intestate:
- ad ogni tipologia di conto sia economico che numerario necessario per l’attività dell’impresa;
- nominativamente ad ogni cliente ed ogni fornitore.

Attenzione che…

• se la contabilità è tenuta bene l’Amministrazione Finanziaria può effettuare accertamenti solo di natura analitica (cioè non può prescindere senza motivazione dalle rilevazioni contabili);
• se la contabilità non è tenuta bene l’Amministrazione Finanziaria può prescindere dalla stessa e ricorrere a strumenti accertativi di natura sintetica (cioè può presumere un certo reddito d’impresa anche a prescindere dalle rilevazioni contabili).

NOTA BENE: la contabilità non è correttamente tenuta se presenta omissioni o false o inesatte indicazioni, irregolarità formali gravi, numerose e ripetute tali da renderla inattendibile.1


1 Ai sensi dell’art. 39 comma 2 d.P.R. n. 600/73.

Il termine per la stampa dei libri obbligatori

Il termine per la stampa dei libri è il seguente:

• entro la data di invio delle dichiarazioni dei redditi (attualmente il 30 settembre): quindi, ad esempio, i libri contabili relativi al 2011 devono essere stampati entro il 30 settembre 2012;

• la stampa del Libro inventari ha un termine successivo (entro 3 mesi dalla data di invio telematico delle dichiarazioni dei redditi): quindi, ad esempio, il Libro inventari relativo al 2011 deve essere stampato entro il 31 dicembre 2012.

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09/11/2015 - 12:44

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:44

3.3.2 - La contabilità semplificata


In base all’inquadramento civilistico non è prevista una contabilità semplificata. Tale agevolazione, quindi, è esclusivamente di carattere fiscale.
 
In base all’inquadramento fiscale possono adottarla tutti gli imprenditori ad eccezione di:

• società e enti commerciali soggetti ad Ires,
• persone fisiche e società di persone che nell’esercizio precedente hanno conseguito ricavi superiori a:
- € 400.000, se esercitano attività di servizi,
- € 700.000, se esercitano altre attività,
cioè praticamente tutti coloro che non sono tenuti obbligatoriamente a tenere una contabilità ordinaria (c.d. «imprese minori»).

In caso di contabilità semplificata i libri obbligatori sono gli stessi della contabilità ordinaria (e con le stesse avvertenze) ma senza:

• il libro giornale;
• il libro inventari.

I Libri Iva devono essere integrati con le annotazioni ai fini delle imposte sui redditi delle operazioni non soggette ad Iva.

Le annotazioni integrative nei Libri Iva sono relative a:
• componenti positivi e negativi non soggetti ad Iva (interessi passivi e attivi, assicurazioni, ecc.);
• rettifiche apportate a costi e ricavi secondo il criterio di competenza (fatture da emettere o da ricevere, ratei e risconti attivi e passivi, ecc.);1
• accantonamenti TFR;
• ammortamenti di beni strumentali ad utilizzo pluriennale;
• valore delle rimanenze finali di merci, materie prime, semilavorati e prodotti finiti, con la distinta indicazione per categorie omogenee.

Dal 1997 è poi prevista la facoltà di non tenere l’apposito Libro dei beni ammortizzabili, purché le annotazioni relative a tali beni siano annotate nel Libro Iva acquisti.2

Dal 2002 è prevista una ulteriore semplificazione: non è necessario annotare gli ammortamenti sul Libro Iva acquisti purché il contribuente sia in grado, su richiesta dell’Amministrazione Finanziaria, di fornire un prospetto redatto in maniera sistematica contenente i medesimi dati previsti nel Libro dei beni ammortizzabili.

Il termine per la stampa dei libri è lo stesso che per la contabilità ordinaria.


1 Il risconto è una quota di costo o di ricavo non ancora maturata, ma che ha già avuto la sua manifestazione finanziaria.
Si parla di risconto attivo nel caso di un costo già sostenuto, ma parzialmente di competenza dell’esercizio successivo (es. affitti e premi assicurativi pagati anticipatamente).
Si avrà invece un risconto passivo nel caso di un ricavo già conseguito, ma – parzialmente o totalmente – di competenza dell’esercizio successivo (es. interessi attivi percepiti anticipatamente).
Il rateo è una quota di ricavi o costi già maturati, ma non ancora rilevati, poiché la loro manifestazione finanziaria avrà luogo in esercizi futuri.
Si parla di rateo attivo nel caso di un ricavo la cui manifestazione finanziaria avverrà in un esercizio successivo, ma che è in parte di competenza dell’esercizio in corso (es. la quota di interessi
attivi maturati a fine esercizio su un finanziamento erogato, il cui incasso effettivo avverrà nell’esercizio o negli esercizi successivi).
Si avrà invece un rateo passivo nel caso di un costo che avrà la propria manifestazione finanziaria in un esercizio successivo, anche se in parte di competenza economica dell’esercizio in corso (es. la quota di affitto passivo maturata a fine esercizio, il cui pagamento effettivo avverrà nell’esercizio o negli esercizi successivi).

2Determinandone ugualmente la deducibilità degli ammortamenti.

Cosa comporta la contabilità semplificata

A differenza della contabilità ordinaria, quella semplificata comporta:
• l’indeducibilità degli accantonamenti, con esclusione dell’accantonamento relativo al TFR dei lavoratori dipendenti;
• in caso di fallimento, data la mancanza delle scritture previste dalla normativa civilistica (Libro giornale e Libro inventari), è prevista l’imputazione del reato di bancarotta semplice.1

Anche per la contabilità semplificata delle imprese il principio cardine è quello della competenza economica; tale principio, tuttavia, è stato recentemente «sfumato» dal c.d. «decreto sviluppo» che – in un’ottica di semplificazione per le imprese minori – ha inserito una nuova disposizione, secondo la quale «i costi, concernenti contratti a corrispettivi periodici, relativi a spese di competenza di due periodi d’imposta, (…) sono deducibili nell’esercizio in cui è stato ricevuto il documento probatorio. Tale disposizione si applica solo nel caso in cui l’importo del costo indicato dal documento di spesa non sia superiore a euro 1.000».2

Quindi, a titolo esemplificativo, tralasciando i quesiti interpretativi che la norma ha già suscitato – per i quali si attendono chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate – sarà possibile, per una impresa minore che riceva una bolletta telefonica di euro 400 relativa al periodo dicembre 2011-gennaio 2012, «spesarla» interamente nel primo esercizio, cioè considerarla come costo dell’esercizio 2011.

Dalla fine del 2001 è stato abolito l’obbligo di vidimazione e bollatura iniziale dei Libri giornale e inventari (se utilizzati) e dei registri obbligatori ai fini delle imposte dirette e dell’Iva (rimane sempre obbligatoria quella per i Libri sociali).

Permane poi l’obbligo di bollatura in caso d’uso del Libro giornale e del Libro inventari (ma non per il Libro beni ammortizzabili e i Libri Iva).

Resta comunque l’obbligo della numerazione delle pagine, che può avvenire anche subito prima dell’utilizzo di ciascuna pagina e deve essere progressiva per ogni anno (ad ogni cambio di anno ricomincia la numerazione).

Passaggio dalla semplificata all’ordinaria e viceversa

È possibile passare dalla contabilità semplificata a quella ordinaria:
• per scelta del contribuente: mediante «comportamento concludente» (cioè attraverso la manifestazione tacita della propria volontà) e successiva opzione esplicita nella dichiarazione Iva relativa all’anno per cui si è tenuta la contabilità ordinaria;
• per superamento dei limiti dimensionali: dall’anno successivo a quello del superamento.
Se per i due anni successivi non si superano tali limiti, è possibile tornare alla contabilità semplificata.


1Reclusione da sei mesi a due anni se l’imprenditore – oltre ad altri casi – durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta (art. 217 regio decreto 16 marzo 1942 n. 267).
2Articolo 7, comma 2, del d.l. 70/2011.

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09/11/2015 - 12:45

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:45

3.4 - La contabilità dei lavoratori autonomi (professionisti e artisti)


Ricordiamo che secondo l’inquadramento civilistico le attività di lavoro autonomo vengono svolte tramite il «contratto d’opera», che si ha «Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (…)» (artt. 2222 e seguenti c.c.).

Secondo l’inquadramento fiscale, invece, il reddito da lavoro autonomo è quello che deriva dall’esercizio di arti e professioni.

La definizione di tale concetto è di natura residuale: è l’esercizio per professione abituale, anche se non esclusiva, di attività lavorative diverse da quelle di impresa o di lavoro dipendente (art. 53 TUIR).

Pertanto, gli elementi caratterizzanti di tale tipo di lavoro sono:

• la residualità (rispetto all’impresa);
• l’autonomia (rispetto al lavoro dipendente)

Come accennato nel capitolo 1, le attività di collaborazione a progetto rappresentano una sorta di «ibrido» fra il lavoro autonomo e quello dipendente: in tali casi si parla, infatti, di contratti e/o lavoratori parasubordinati. In questa sede, quindi, parleremo esclusivamente del reddito da esercizio di arti e professioni.

Tipologie principali di esercenti arti e professioni

I lavoratori autonomi propriamente detti (esercenti arti e professioni) sono coloro che:

• svolgono attività artistiche ed intellettuali esercitate in maniera professionale ed abituale (anche in forma associata): commercialisti, notai, avvocati, ingegneri, architetti, consulenti informatici, psicologi, artisti, ecc.;
• forniscono prestazioni sportive oggetto di contratti di lavoro autonomo: atleti, calciatori, fantini, piloti da corsa, ecc.;
• percepiscono diritti di utilizzazione economica, in quanto inventori o autori, di opere dell’ingegno (brevetti, disegni, opere letterarie, musicali, ecc.);
• percepiscono utili da associazioni in partecipazione (nei casi di apporto di solo lavoro);
• percepiscono utili in qualità di fondatori e/o promotori di Società per azioni, Società a responsabilità limitata, Società in accomandita per azioni.


1 Le attività di lavoro autonomo occasionale si caratterizzano invece per la mancanza del requisito della abitualità.
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09/11/2015 - 12:46

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:46

3.4.1 - Come si determina il reddito da lavoro autonomo


Come nel caso del reddito d’impresa, il reddito di lavoro autonomo (art. 54 TUIR) va determinato per differenza tra le componenti reddituali positive e quelle negative.

A differenza che nel reddito d’impresa, tuttavia, nel lavoro autonomo la competenza degli elementi di reddito non è economica ma per cassa.

Quindi:

• rappresentano ricavi i soli compensi incassati nell’anno, e non quelli relativi a lavori svolti ma per i quali non vi è stata una manifestazione finanziaria;
• rappresentano costi le sole spese sostenute nell’anno: pertanto se il professionista o l’artista riceve una fattura di € 100 – relativa a prestazioni già completamente godute – e ne paga solo una parte (ad esempio € 60), il costo deducibile ai fini fiscali sarà pari ad € 60;
• non si procede alla rilevazione di fatture da emettere e da ricevere, ratei e risconti attivi e passivi,1 accantonamenti e rimanenze finali;
• principali eccezioni alla precedente regola: l’accantonamento TFR e gli ammortamenti dei beni strumentali.

La fatturazione con Iva «sospesa»

Normalmente nel lavoro autonomo la fatturazione segue o è contestuale all’incasso, poiché la fattura deve essere emessa al momento di effettuazione della prestazione che, per i professionisti, corrisponde all’atto del pagamento.

Esistono però delle eccezioni, in cui la fatturazione precede l’incasso: in particolare nel caso dei professionisti che lavorano con enti pubblici, i quali per autorizzare un pagamento, normalmente necessitano di una fattura vera e propria (non risultando sufficiente il normale progetto di notula emesso dal professionista quale richiesta di pagamento).

In tali casi, il professionista può emettere la fattura con Iva «sospesa», per evitare che lo stesso debba versare l’imposta prima di ricevere effettivamente il pagamento.

Gli elementi positivi e negativi di reddito

Per gli esercenti arti e professioni gli elementi positivi e negativi di reddito sono indicati dall’art. 54 del TUIR e tale elencazione è da considerarsi tassativa2.

Come per il reddito d’impresa, la differenza tre le regole contabili e quelle fiscali determina una differenza tra il risultato d’esercizio risultante dalla contabilità ed il risultato d’esercizio fiscale.

Le componenti positive di reddito sono:

• compensi in denaro o in natura per onorari ed indennità effettivamente incassati, con eccezione dei rimborsi delle anticipazioni effettuate in nome e per conto del cliente, che non costituiscono reddito (ad esempio anticipazione di marche da bollo, pagamento di fatture di terzi direttamente intestate al cliente, pagamento di contributi previdenziali addebitati al cliente)3;
• interessi di mora o di dilazione, riscossi per tardivo pagamento di compensi;
• indennità o risarcimenti conseguiti in sostituzione del reddito professionale;
• plusvalenze realizzate in occasione di cessione di beni strumentali. 4

Le componenti negative di reddito sono in sintesi tutti i costi inerenti all’attività, cioè:

• canoni di locazione dei locali in cui si esercita l’attività;
• spese per eventuali dipendenti;
• spese per servizi di terzi relativi all’attività;
• spese di vitto e alloggio;5
• spese di rappresentanza;6
• spese per convegni, congressi, corsi di aggiornamento, ecc.;7
• minusvalenze realizzate in occasione di cessione di beni strumentali;
• spese per beni utilizzati promiscuamente (telefoni, autoveicoli ecc.).8

La ritenuta d’acconto

Ogni cliente che non sia un privato 9 al momento in cui corrisponde un compenso ad un professionista deve effettuare, sulla somma lorda corrisposta, una ritenuta d’acconto, da versare all’Erario dello Stato nel mese successivo al pagamento. Il professionista – a sua volta – potrà poi detrarsi dall’imposta netta, risultante in dichiarazione, tutte le ritenute per lui versate relativamente ai compensi percepiti nell’anno oggetto di dichiarazione.

In sostanza: il libero professionista – tramite la ritenuta d’acconto effettuata dai clienti di cui sopra, non «privati» – versa l’Irpef via via su ogni fattura che emette nei confronti di tali clienti; in sede di dichiarazione dei redditi, scomputerà dall’Irpef dovuta quanto già versato con tale meccanismo. 10

Il reddito dello studio associato

In caso di reddito prodotto da uno studio associato (che si ha quando due o più lavoratori autonomi si accordano per lo svolgimento insieme dell’attività professionale, dividendone le spese e i compensi):

• la determinazione del reddito è la medesima prevista per il singolo professionista, con gli stessi elementi positivi e negativi di reddito;
• l’unica differenza consiste nel fatto che mentre al singolo professionista è consentito dedursi i costi relativi ad un solo autoveicolo o ciclomotore o motociclo, nel caso di studio associato è possibile dedurre i costi relativi a tanti mezzi intestati allo studio, quanti sono i professionisti associati;
• il reddito così determinato viene attribuito al professionista in base alla propria percentuale di partecipazione allo studio, determinata nell’atto di associazione;
• anche le ritenute subite vengono ripartite sulla base della percentuale di partecipazione del singolo professionista.

Il regime contabile degli esercenti arti e professioni

Il regime contabile naturale per un professionista è quello della contabilità semplificata. Il regime di contabilità ordinaria è applicabile solamente su opzione.

In caso di contabilità semplificata i libri obbligatori sono i seguenti:

• Libro Iva vendite;
• Libro Iva acquisti;
• Registro incassi e pagamenti: in cui devono essere annotati cronologicamente gli introiti e le spese derivanti dall’esercizio della professione, anche se non documentati in fattura (questo poiché un ricavo o un costo ha rilevanza fiscale solo se incassato o pagato); 11
• Libro dei beni ammortizzabili; 12
• Registro delle somme in deposito (comune alla contabilità ordinaria e semplificata): in esso commercialisti, notai ed avvocati possono registrare le somme anticipate dai clienti, sia quale corrispettivo sia quale anticipo spese da sostenere in nome e per conto dei clienti stessi, emettendo la relativa parcella (notula, fattura) entro 60 giorni dalla data di ricevimento. 13

In caso di contabilità ordinaria i libri obbligatori sono i seguenti:

• Libro Iva vendite;
• Libro Iva acquisti;
• Registro cronologico: in esso vanno annotati cronologicamente e numerati progressivamente le componenti positive e negative di reddito e le movimentazioni finanziarie, compresi i prelevamenti delle somme percepite effettuati per finalità estranee all’esercizio professionale;
• Libro beni ammortizzabili; 14
• Registro delle somme in deposito: vedi sopra.

È prevista la possibilità di non tenere i Libri Iva ed il Libro dei beni ammortizzabili se:

• le registrazioni sono effettuate nel Registro cronologico;
• su richiesta dell’Amministrazione Finanziaria sono forniti, in forma sistematica, gli stessi dati che si sarebbero dovuti annotare nei suddetti registri.

Scritture contabili sostituite dagli estratti conto bancari. Attenzione però…

Al momento in cui si scrive è stata appena approvata la legge di stabilità per il 2012. Tale provvedimento include una novità che già sta facendo discutere.

La norma in questione 15 prevede che «i soggetti in contabilità semplificata e i lavoratori autonomi che effettuano operazioni e pagamenti interamente tracciabili (bonifici, assegni, ecc.: N.d.R.) possono sostituire gli estratti conto bancari alle scritture contabili».

Tale norma non appare delle più chiare. Infatti:

• non è precisato l’ambito di applicazione della norma (solo fiscale o anche civilistico?) 16;
• la norma parla di «lavoratori autonomi»; formula tecnicamente discutibile, tesa presumibilmente ad individuare esercenti arti e professioni titolari di reddito di lavoro autonomo (artisti e professionisti);
• non si capisce perché si faccia riferimento agli estratti conto bancari e non a quelli delle carte di credito;
• si intravedono inoltre una difficoltà operative: ad esempio, non essendo il professionista obbligato ad aprire un conto corrente bancario in cui far confluire esclusivamente le operazioni legate allo svolgimento dell’attività, sarà necessario distinguere le operazioni svolte con riferimento alla professione da quelle effettuate a titolo meramente personale.

Come di consueto, la novità è ancora troppo recente per comprenderne appieno portata, significati ed effetti. Certo è che saranno necessari chiarimenti.


1 V. nota 24.
2 Come per il reddito d’impresa, il TUIR impone le regole relativa alla imponibilità dei ricavi e alla deducibilità dei costi.

3 Il contributo previdenziale addebitato al cliente non costituisce reddito se diretto a cassa di previdenza di categoria (commercialisti, avvocati, ingegneri, architetti, ecc.); costituisce invece reddito se diretto all’INPS.
4 Fino al 12 agosto 2006 tali componenti erano esclusi dal reddito dei professionisti: vi sono stati inclusi a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento della norma nota come «Decreto Visco-Bersani».
5 Nei limiti del 75% del loro ammontare, e comunque nei limiti del 2% dei compensi percepiti.
6 Nei limiti dell’1% dei compensi percepiti.
7 Nei limiti del 50% del loro ammontare.
8 Nei limiti del 50% del loro ammontare: telefoni cellulari entro l’80%; autovetture e motoveicoli entro il 40%, nei limiti di determinati massimali. N.B.: i professionisti possono dedursi i costi di un solo veicolo.
9 Per «privato» si intende comunemente un soggetto che non svolga attività di lavoro autonomo o impresa e, quindi, non abbia Partita Iva.
10 Sfuggono a questa regola i «nuovi» contribuenti minimi, di cui oltre.
11 Il Registro incassi e pagamenti può essere sostituito dai Registri Iva purché:
• sugli stessi vengano annotate separatamente le operazioni non soggette a registrazione ai fini Iva;
• sugli stessi siano indicate le date di incasso e di pagamento delle fatture emesse e d’acquisto annotate.
12 Può essere sostituito dal Registro incassi e pagamenti qualora sullo stesso siano annotati, a fine anno, i valori dei beni per i quali si richiede la deduzione di quote di ammortamento, nonché le quote di ammortamento stesse.
13 Questo registro può essere sostituito dalle annotazioni sul Registro cronologico (vedi sotto).
14 Non necessariamente obbligatorio purché le relative annotazioni vengano effettuate nel Libro Iva acquisti. E’ prevista la possibilità di non tenere i registri prescritti ai fini IVA ed il libro dei beni ammortizzabili se le registrazioni sono effettuate nel registro cronologico, e, su richiesta dell’Amministrazione Finanziaria, sono forniti, in forma sistematica, gli stessi dati che si sarebbero dovuti annotare nei suddetti registri.
15 Art. 14, comma 10, della legge 12 novembre 2011 n. 183.
16 Non si dimentichi che, come spiegato in precedenza, l’imprenditore è obbligato dal codice civile alla tenuta di scritture contabili, e che l’adesione al regime di contabilità semplificata, avendo rilevanza meramente fiscale e non civile, non pone al riparo dal reato di bancarotta semplice documentale.

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09/11/2015 - 12:46

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:46

3.5 - I regimi contabili minori


Il nostro sistema fiscale prevede alcuni regimi «super-semplificati» per i contribuenti che esercitano attività di impresa o di lavoro autonomo, in presenza di una serie di requisiti e di attività con volumi estremamente ridotti (cioè in caso di «micro-attività»). È un caso che può interessare molti lettori di questo volume.

Tali regimi si sono succeduti negli anni. Ad oggi gli unici superstiti sono:

• il regime sostitutivo per le «nuove iniziative produttive» (c.d. «forfettino»,1 la cui sopravvivenza, in realtà, è stata messa in dubbio da una serie di norme recentissime, di cui oltre);
• il regime dei vecchi «contribuenti minimi» (dal 01/01/2008 al 31/12/2011);
• il regime dei nuovi «contribuenti minimi» (dal 01/01/2012);
• il regime residuale degli ex «contribuenti minimi» (dal 01/01/2012).

Il regime sostitutivo per le nuove iniziative produttive

I soggetti ammessi a tale regime sono persone fisiche ed imprese familiari2 con i seguenti requisiti:

• negli ultimi tre anni non abbiano esercitato attività artistica, professionale o d’impresa;3
• la nuova attività da intraprendere non costituisca la mera prosecuzione di una precedente anche svolta in qualità di lavoratore dipendente, autonomo o collaborazione coordinata e continuativa;4
• l’ammontare dei compensi di lavoro autonomo o i ricavi per le attività imprenditoriali di servizi non siano superiori a determinati limiti;5
• nel caso di prosecuzione di attività di impresa svolta precedentemente da altro soggetto, l’ammontare dei ricavi realizzati nell’esercizio precedente quello di opzione per il nuovo regime non sia stato superiore ai suddetti limiti;
• siano regolarmente adempiuti gli obblighi previdenziali, assicurativi ed amministrativi.

I soggetti esclusi da tale regime sono:

• società di persone e di capitali;
• associazioni professionali.

La dichiarazione di adesione a tale regime va presentata all’Agenzia delle Entrate al momento della segnalazione di inizio attività: l’opzione prevede una permanenza massima di 3 anni, ma il contribuente ha facoltà di comunicare la rinuncia al regime anche prima di tale termine.

La cessazione dell’opzione può essere:

• volontaria: occorre compilare e presentare un’apposita dichiarazione all’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate: la cessazione ha effetto dal periodo d’imposta nel quale è presentata la rinuncia;
• per superamento del limite previsto per i ricavi ed i compensi:

- per un importo inferiore al 50% del limite stesso: la cessazione ha validità dal periodo d’imposta successivo;
- per un importo superiore al 50% del limite stesso: la cessazione ha efficacia immediata ed il contribuente sarà tassato ordinariamente anche nel periodo d’imposta in cui si sono superati i limiti.

Il «forfettino» comporta le seguenti agevolazioni:

• minori adempimenti contabili:

totale esonero dagli obblighi di tenuta di scritture contabili ai fini delle imposte dirette, Irap e Iva (fermo restando l’obbligo di emissione e conservazione dei documenti contabili: fatture, ricevute e scontrini fiscali, o – in alcuni casi – utilizzando la semplice «certificazione dei corrispettivi» (annotando ad esempio le transazioni su un file o su un comune registro dei corrispettivi giornalieri);
versamento Iva a debito in unica soluzione (annuale anziché trimestrale);

• tassazione agevolata del reddito:

il reddito è determinato come differenza fra l’ammontare dei ricavi e compensi e quello dei costi determinati secondo le regole previste per il lavoro autonomo o l’impresa in contabilità semplificata;
il reddito così determinato è soggetto ad un’imposta forfettaria del 10% sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali.

Per questo regime sono inoltre previsti, su richiesta del contribuente:

• assistenza fiscale: l’Ufficio territorialmente competente dell’Agenzia delle Entrate può fornire un’assistenza telematica gratuita al contribuente negli adempimenti fiscali;6
• software gratuito: l’Agenzia delle Entrate fornisce anche il software per l’acquisizione e l’elaborazione dei dati analitici, trasmissione telematica dei dati contabili aggregati, predisposizione della dichiarazione (solo i quadri relativi all’attività agevolata);
• credito d’imposta: ai contribuenti che si dotano di computer e modem per l’assistenza telematica è riconosciuto un credito d’imposta (utilizzabile solo in compensazione crediti-debiti) pari al 40% del loro costo.7

Il regime del «forfettino» non ha mai riscosso grande successo, soprattutto perché il vantaggio rappresentato da una aliquota «secca» del 10 % viene molto ridotto dalla impossibilità di usufruire di diverse detrazioni (per carichi di famiglia, per tipologia di reddito) e di dedurre dal reddito determinati oneri (es. contributi previdenziali).8

Il regime dei «vecchi» contribuenti minimi

La legge finanziaria per il 20089 ha introdotto un ulteriore regime agevolato, detto dei «contribuenti minimi».

Precisiamo subito: tale regime ha cessato di esistere al 31/12/2011. La sua analisi è però importante al fine di comprendere quello che accade a partire dal 01/01/2012.

I soggetti ammessi a tale regime sono persone fisiche10 residenti in Italia ed esercenti attività d’impresa o arti e professioni che nell’anno solare precedente:

• hanno avuto un volume di ricavi/compensi non superiore ad € 30.000;
• non hanno effettuato cessioni all’esportazione;
• non hanno sostenuto spese per lavoratori dipendenti o collaboratori;
• e contemporaneamente, non hanno effettuato nel triennio precedente acquisti di beni strumentali superiori a € 15.000 (da calcolare con criteri particolari).

Tale regime, naturalmente, può applicarsi anche a chi intraprende una nuova attività.11

Questo regime comporta le seguenti agevolazioni:

• esonero dagli adempimenti contabili ai fini delle imposte sul reddito e Iva (non si deve tenere alcun registro); permane, naturalmente, l’obbligo di conservare i documenti ricevuti ed emessi;
• esclusione da Irap e studi di settore (v. cap. successivo);
• applicazione di un’imposta sostitutiva delle imposte sul reddito, con aliquota al 20% sulla differenza tra ricavi e costi, valutati non per competenza ma esclusivamente per cassa (è un regime di «cassa pura»);
• ai fini Iva i contribuenti minimi:

- non addebitano l’Iva a titolo di rivalsa (emettono fatture senza Iva, con una causale particolare);
- non hanno diritto alla detrazione dell’Iva sugli acquisti, anche intracomunitari, e sulle importazioni (l’Iva pagata diviene un costo);
- per le operazioni in cui sono debitori d’imposta (acquisti intracomunitari, reverse charge12) devono integrare le fatture con l’indicazione dell’aliquota e della relativa imposta e versare l’Iva entro il 16 del mese successivo all’effettuazione dell’operazione.

Sono esclusi da tale regime:

• i soggetti che si avvalgono di regimi speciali Iva;
• i non residenti in Italia;
• coloro i quali svolgono in via esclusiva o prevalente cessioni di fabbricati o porzioni degli stessi, terreni edificabili e di mezzi di trasporto nuovi;
• gli esercenti di attività d’impresa, arti e professioni in forma individuale che contestualmente partecipano a società o associazioni professionali;
• coloro che esercitano alcune attività particolari individuate dalla normativa (es. vendita di sali e tabacchi, gestione di servizi di telefonia pubblica, agenzie di viaggi e turismo, ecc.)

La cessazione dal regime in discorso può essere:

• volontaria, con apposita opzione di «rientro» nel regime ordinario (tale opzione deve valere per almeno un triennio);
• per il venir meno di alcuni dei requisiti richiesti; in particolare, nel caso di superamento del limite previsto per i ricavi ed i compensi:
- per un importo inferiore al 50% del limite stesso: la cessazione ha validità dal periodo d’imposta successivo;
- per un importo superiore al 50% del limite stesso: la cessazione ha efficacia immediata ed il contribuente sarà tassato ordinariamente anche nel periodo d’imposta in cui ha superato i limiti.

A differenza del «forfettino», il regime dei contribuenti minimi ha incontrato un discreto successo, principalmente per l’esenzione da Irap e studi di settore, e anche perché, in questo caso, è stata espressamente prevista la possibilità di dedurre dal reddito quanto versato a titolo di contributi INPS/Casse professionali.

Il regime dei contribuenti minimi, come originariamente concepito, ha avuto però durata breve. La manovra finanziaria 201113 ha infatti riformato radicalmente tale regime ed è entrata in vigore dal 1° gennaio 2012.

Senza entrare troppo in profondità, è venuto a crearsi:

A) un regime dei «nuovi contribuenti minimi»;

B) un regime residuale, semplificato, degli «ex contribuenti minimi».

Il regime dei «nuovi» contribuenti minimi

L’accesso al regime dei «nuovi contribuenti minimi» è riservato solo alle persone fisiche che – oltre a possedere tutti i requisiti già previsti dalla vecchia normativa per i contribuenti minimi – hanno avviato un’attività di impresa, arte o professione successivamente al 31.12.2007, o che intendono avviarla, a condizione:

• che il contribuente non abbia esercitato attività artistica, professionale o d’impresa nei tre anni precedenti l’inizio della attività, anche in forma associata o familiare;
• che l’attività non costituisca mera prosecuzione di altra attività precedentemente svolta in forma di lavoro dipendente o autonomo;
• che, laddove si intenda proseguire un’attività precedentemente svolta da altro soggetto, l’ammontare dei ricavi realizzati nel periodo d’imposta precedente non risulti superiore a 30.000 euro.

In sostanza: sono state introdotte nuove condizioni (talora mutuate dal «forfettino»), aggiuntive rispetto a quelle originariamente previste dal regime dei contribuenti minimi. Chi le rispetta tutte può accedere al nuovo regime, sia pure per un numero di anni limitato; chi, essendo invece già un contribuente minimo, non rispetta qualcuna delle nuove condizioni, accederà ad un regime diverso, con qualche residua agevolazione (v. oltre).

Il «nuovo» regime dei minimi è particolarmente agevolato, prevedendo una imposta sostitutiva di Irpef e addizionali pari al 5% (e non più al 20%).14 Essendo un regime rivolto soprattutto (ma non esclusivamente) alle nuove imprese giovanili, sarà tuttavia applicabile per un numero limitato di anni (5 anni a partire dall’inizio dell’attività e comunque fino ai 35 anni di età).15

Una tassazione al 5%, unita alle altre semplificazioni, è sicuramente interessante; ma occorre fare particolare attenzione nel verificare la presenza (e la permanenza) dei requisiti necessari, anche e soprattutto alla luce delle frequenti variazioni normative. I meccanismi di entrata ed uscita sono sostanzialmente analoghi a quelli previsti per i «vecchi» contribuenti minimi: ma l’uscita «forzata» dal regime, per superamento dei limiti, o per il fatto che si cambino le regole, come è accaduto per il precedente regime, potrebbe avere conseguenze da valutare con attenzione. Per questo rinnoviamo l’invito a rivolgersi ad un consulente qualificato.

Il regime residuale degli ex contribuenti minimi

Nel regime residuale degli «ex contribuenti minimi» confluiscono invece tutti coloro che, pur possedendo i requisiti originariamente previsti (che ne hanno perciò consentito, a suo tempo, l’accesso), non rispettano le ulteriori condizioni poste dalla manovra 201116 e quindi non rientrano nel caso di cui sopra.

In sintesi: gran parte di coloro che hanno operato fino a ieri nel regime dei minimi ne vengono forzatamente estromessi, rientrando in una sorta di regime intermedio.

Si stima che la stragrande maggioranza (il 96%) dei contribuenti operanti nel regime dei minimi si trovi oggi in questa condizione.

Il regime residuale degli «ex minimi» è semplificato e prevede:

• l’obbligo di conservare i documenti ricevuti ed emessi;
• l’obbligo di emettere le fatture e certificare i corrispettivi; le fatture devono essere emesse con Iva;
• l’esonero dagli obblighi di registrazione e di tenuta delle scritture contabili, rilevanti ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, nonché dalle liquidazioni e dai versamenti periodici rilevanti ai fini Iva. Tuttavia l’Iva dovrà essere determinata con le regole ordinarie e versata annualmente;
• l’esonero dall’Irap;
• l’assoggettamento dei contribuenti agli studi di settore;
• la determinazione del reddito in base alle regole ordinarie, non essendo più previsto un generale criterio di cassa.

Dopo vari passaggi, pare accertato che i soggetti che entreranno in questo nuovo regime saranno assoggettati «normalmente» ad Irpef.

Al termine di questo breve viaggio nel complicato mondo delle regole fiscali e contabili (che, ripetiamo, vuole soltanto rappresentare una «pillola» di conoscenza), proviamo a ripercorrere l’itinerario che abbiamo seguito, sintetizzandolo nello schema seguente.


1 Previsto dall’art. 13 della legge 388/2000.
2 L’impresa familiare è un istituto introdotto nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia del 1975 (art. 230 bis c.c.). Esso regola i rapporti che nascono in seno ad una impresa qualora un familiare dell’imprenditore presti continuativamente la propria opera all’interno dell’impresa stessa. Dal punto di vista fiscale la materia è regolata dall’articolo 5 comma 4 del TUIR, nel quale è stabilito che la partecipazione complessiva agli utili dei familiari non può eccedere il 49%.
3 La qualità di socio in una società di persone o di capitali non è di per sé di ostacolo, purché il socio non abbia svolto in concreto alcuna attività d’impresa o di lavoro autonomo, ma si sia limitato ad una pura partecipazione al capitale.
4 Con esclusione dei periodi di pratica obbligatoria per l’accesso ad arti o professioni.
5 € 30.987,41 nel caso di attività di servizi; € 61.974,83 nel caso di attività diverse da quelle di servizi.
6 Pertanto occorre possedere un computer ed un modem in grado di connettersi al Sistema Informativo dell’Agenzia stessa. In tal caso, tuttavia, il contribuente è obbligato trimestralmente alla trasmissione dei dati contabili relativi alle operazioni effettuate.
7 Con un limite di € 309,87. Tale credito non concorre alla formazione della base imponibile e non è rimborsabile.
8Ciò in conseguenza del fatto che l’Agenzia delle Entrate, con circolare n.1/E del 3 gennaio 2001 ha chiarito che l’ammontare del reddito d’impresa o di lavoro autonomo che costituisce base imponibile dell’imposta sostitutiva non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini Irpef. Conseguentemente, le detrazioni d’imposta di tipo soggettivo di cui agli artt. 12 e 13 del TUIR (detrazioni per carichi di famiglia, detrazioni per tipologia di reddito), nonché gli oneri deducibili dal reddito di cui all’art. 10 del TUIR (es. contributi INPS e/o a casse professionali), non risultano applicabili in presenza dei soli redditi soggetti ad imposta sostitutiva. Pertanto, in assenza di altri redditi soggetti «normalmente» ad Irpef, il vantaggio rappresentato da una aliquota forfettaria del 10 % (quindi, non progressiva ma proporzionale) viene abbattuto, se non completamente annullato, dall’impossibilità di usufruire delle suddette detrazioni e di dedurre dal reddito quegli oneri previsti per la normativa Irpef.
9 Legge 244/2007, commi da 96 a 117.
10In base a recenti chiarimenti, si ritiene che anche l’impresa familiare possa accedere al regime dei contribuenti minimi.
11 È bene ricordare che, in tal caso, il volume dei compensi/ricavi deve intendersi rapportato ad anno.
12 Tramite il meccanismo del «reverse charge» (inversione contabile), l'importo dell’IVA viene caricato sia sul registro degli acquisti, che su quello delle vendite, rendendo neutrale l’impatto economico e finanziario dell’operazione.
13 Articolo 27 del d.l. 98/2011, convertito nella legge 111/2011.
14 È stato chiarito recentemente, inoltre, che i compensi dei «nuovi» contribuenti minimi non sono soggetti a ritenuta d’acconto.
15 Al momento in cui si scrive è stato reintrodotto un requisito anagrafico in base al quale il limite dei cinque anni può essere superato dai giovani, fino al raggiungimento dei 35 anni d'età del contribuente. La norma recita in proposito: «il regime… è applicabile anche oltre il quarto periodo d’imposta successivo a quello di inizio dell’attività ma non oltre il periodo di imposta di compimento del trentacinquesimo anno di età». Tale norma tuttavia sta ponendo diversi problemi interpretativi sui quali si attendono chiarimenti.In ogni caso va sottolineato che non vi sono vincoli di età. I 35 anni sono soltanto la soglia massima per i beneficiari più giovani, che hanno il vantaggio di poter godere dei requisiti per rientrare nel regime fiscale agevolato anche oltre i 5 anni (concessi a tutti i nuovi minimi), purché non si superi, appunto, la soglia del 35esimo anno di età.

16 Esso sarà anche il regime naturale per quelle persone fisiche che si trovano nelle stesse condizioni.

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09/11/2015 - 12:49

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:49

4 - Gli aspetti fiscali


Alcuni cenni sui principali tributi a cui è sottoposto l'imprenditore: IVA, IRPEF, IRES, IRAP...

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27/10/2015 - 15:48

Aggiornato il: 27/10/2015 - 15:48

4.1 - Imposte dirette e indirette


Come abbiamo visto nel capitolo precedente, le rilevazioni effettuate tramite le scritture contabili obbligatorie sono indispensabili:

• ai fini civilistici, per documentare ai terzi i risultati dell’attività aziendale;
• ai fini delle imposte dirette, per determinare la «base imponibile», cioè il valore prodotto dall’attività aziendale e che deve essere assoggettato ad imposizione diretta;
ai fini delle imposte indirette, per poter conteggiare l’Iva da versare all’Erario.

In questo capitolo approfondiremo gli ultimi due aspetti, con un’avvertenza che è sempre bene ripetere: le nozioni fornite di seguito servono esclusivamente a poter «comunicare» col proprio commercialista, e non hanno certo la pretesa di essere esaurienti.

Data l’estrema complessità della materia, rimandiamo perciò il lettore a pubblicazioni specializzate per tutti gli approfondimenti in merito.

Ciò premesso, diamo di seguito qualche breve cenno sulle principali imposte1 a cui è assoggettato l’imprenditore. Nel sistema tributario italiano le imposte si distinguono in dirette ed indirette.

► Le imposte dirette sono quelle che colpiscono direttamente la ricchezza, già esistente (il patrimonio) o nel momento in cui si produce (il reddito).
Al momento in cui si scrive le principali imposte dirette sono:
• l’Irpef – Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche: è un’imposta progressiva, cioè al crescere del reddito imponibile aumenta il valore delle aliquote da applicare sulle ulteriori quote di reddito;
• l’Ires – Imposta sul Reddito delle Società (che ha sostituito l’Irpeg dal 1.1.04): è un’imposta proporzionale: cioè, a differenza dell’Irpef, l’aliquota è fissa (Al momento in cui si scrive è fissata al 27,5%.) e non muta al variare del reddito imponibile;
• l’IrapImposta Regionale sulle Attività Produttive: è anch’essa un’imposta proporzionale, gravante sui «redditi» (da intendersi in una accezione particolare) prodotti nell’esercizio di imprese, arti e professioni (con particolari limiti nel caso di artisti e professionisti.): ha un’aliquota fissa(in genere del 3,9%)

► Le imposte indirette sono quelle che colpiscono indirettamente la ricchezza, nel momento in cui viene spesa (es. l’Iva che colpisce i consumi) o trasferita (es. l’imposta di registro che grava sui passaggi di proprietà.Oltre che su tutta una serie di atti soggetti a registrazione (es. contratti di locazione, operazioni societarie, ecc.). Tra tutte la più importante è l’Iva – Imposta sul Valore Aggiunto, con aliquote diverse secondo la natura dei prodotti o dei servizi venduti (al momento in cui si scrive quella principale è del 21% - a decorrere dal 17 settembre 2011).

Vediamo più da vicino gli obblighi tributari dell’imprenditore, sia per la più importante delle imposte indirette, l’Iva, che per le imposte dirette (Irpef, Ires e Irap).


1Nel linguaggio corrente «imposte» e «tasse» sono sinonimi. In realtà le imposte sono tributi che colpiscono i redditi o i patrimoni (imposte dirette) e i consumi (imposte indirette) senza alcuna relazione con i servizi ricevuti dal cittadino; le tasse e i diritti invece sono tributi pagati per usufruire di un servizio specifico reso dallo Stato o dall’Ente locale (es. nettezza urbana, iscrizione alla Camera di commercio, ecc.).

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09/11/2015 - 12:49

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:49

4.1.1 - L'Iva


Cos’è l’Iva

L’Iva (Imposta sul Valore Aggiunto) è la principale imposta indiretta. È così chiamata perché colpisce il «valore aggiunto» della merce inteso come differenza fra il valore dei beni o servizi prodotti e venduti e il valore dei beni e servizi acquistati per la realizzazione del bene o servizio finale (differenza tra il prezzo di vendita e il costo di acquisto).

Poniamo ad esempio che un imprenditore (tipicamente un commerciante) compri un prodotto da un fornitore a € 500 e lo rivenda a € 800: il valore aggiunto è pari alla differenza fra la ricchezza lorda prodotta (€ 800) e le risorse acquistate dall’esterno per la realizzazione del prodotto (€ 500).

Nell’esempio proposto il valore aggiunto è pari a € 300. Supponendo che a quel prodotto si applichi l’aliquota Iva ordinaria del 21%, l’imposta sul valore aggiunto sarà di € 63 (300 × 0,21).

La «liquidazione» dell'Iva

Tuttavia, l’Iva non si calcola effettivamente in questo modo, ma con un’operazione detta «liquidazione»: detraendo cioè dall’Iva relativa a tutte le fatture emesse nel periodo di riferimento , l’Iva relativa alle fatture di acquisto relative al medesimo periodo (se detraibile).

La liquidazione viene effettuata secondo il criterio di «detrazione di imposta da imposta» (esclusi i soggetti forfettari, che utilizzano un sistema diverso).

Facciamo un esempio concreto riprendendo il caso di cui sopra, e supponendo per semplicità che nel periodo di riferimento si abbia una sola fattura di vendita ed una sola fattura di acquisto.1

Il commerciante compra il prodotto a        €   500    +
e oltre al prezzo netto paga al fornitore l’Iva al 21%, cioè     €   105    =
Totale prezzo d’acquisto     €   605
Il commerciante vende il prodotto a   €   800    +
e oltre al prezzo netto fa pagare al cliente l’Iva al 21%, cioè     €   168    =
Totale prezzo di vendita    €     68
Il commerciante quindi ha incassato dal cliente un’Iva (Iva a debito) di     €   168    –
ha pagato al fornitore un’Iva (Iva a credito) d   €   105    =
deve versare allo Stato un’Iva di        €     63


L’esempio ha proposto una situazione dove l’imprenditore ha incassato dai suoi clienti più Iva di quanto pagata ai propri fornitori. Può darsi, tuttavia, anche il caso contrario, in cui cioè l’imprenditore incassa complessivamente dai clienti un’Iva minore di quella pagata ai fornitori: in tale situazione, non dovrà effettuare alcun versamento Iva, ma anzi rileverà un credito Iva.

Da quanto detto si capisce che l’Iva non è mai un costo per l’imprenditore. Egli funge solo da esattore: la incassa e, se dovuta, la versa all’Erario (in base all’esempio: l’Iva di € 63 rappresenta per l’imprenditore un debito da versare allo Stato, ma non un costo).

L’Iva è, invece, un costo per il consumatore finale e per tutti i soggetti non titolari di Partita Iva, che non possono «scaricare» l’Iva dal prezzo d’acquisto dei prodotti.


1 L’esempio è tratto dalla «Guida per la preparazione all’esame di idoneità al commercio» di Alessandro Selmin, edita dalle Camere di commercio.
 

Quando liquidare e versare l'Iva

Come regola generale1 tutti i contribuenti devono liquidare e, se dovuta, versare l’Iva con periodicità mensile. Il versamento deve essere effettuato entro il giorno 16 del mese successivo a quello di riferimento: ad esempio, l’Iva conteggiata (liquidata) per il mese di marzo (relativa cioè alle operazioni effettuate in tale mese) deve essere versata entro il 16 aprile.

Tuttavia i soggetti con un volume di affari:
• inferiore a € 400.000, se svolgono attività di prestazione di servizi, o
• inferiore a € 700.000, se svolgono attività di cessione di beni,2

possono effettuare tale versamento con periodicità trimestrale, maggiorando però gli importi dell’1% di interessi (salvo casi particolari), da versare entro il 16 del secondo mese successivo.

Qualora, come prima detto, venga rilevato un credito, verrà riportato in detrazione nella successiva liquidazione periodica.

Ad esempio, se un’impresa nel mese di marzo rileva un credito Iva pari a € 2.000, e nel mese di aprile evidenzia invece un debito Iva per € 4.500, dovrà versare soltanto la differenza, pari a € 2.500 (c.d. «compensazione»).
Al verificarsi di particolari condizioni, e per particolari settori di attività, l’impresa può chiedere il rimborso o l’utilizzo in compensazione del credito Iva maturato infrannualmente.
Lo stesso dicasi per il rimborso del credito annuale: è possibile chiederlo in determinate situazioni e al verificarsi di determinate condizioni, che non è il caso di approfondire in questa sede.

Va sottolineato che normative recenti, emanate in funzione antifrode, limitano fortemente la possibilità di utilizzare il credito annuale Iva «in compensazione orizzontale», cioè per pagare debiti relativi ad imposte diverse.

Acconto Iva annuale

Entro il 27 dicembre di ogni anno deve essere versato l’acconto Iva, che:

• per i contribuenti mensili, costituisce un acconto dell’Iva dovuta per il mese di dicembre;
• per i contribuenti trimestrali, costituisce un acconto dell’Iva dovuta per l’ultimo trimestre dell’anno.

Il calcolo dell’acconto Iva non è una cosa semplice: può essere effettuato attraverso diversi metodi, ognuno dei quali comporta vantaggi e svantaggi valutabili caso per caso. Rimandiamo perciò al riguardo al proprio esperto di fiducia.

Comunicazione Iva annuale

È stata introdotta la comunicazione Iva annuale, nella quale vengono anticipati alcuni dei dati che verranno successivamente comunicati in sede di dichiarazione annuale (v. paragrafo successivo). Tuttavia, vista la vicinanza con la dichiarazione annuale stessa e la necessità di dover comunque raccogliere una consistente mole di dati, la legge ha esonerato dalla presentazione di detta comunicazione i soggetti persone fisiche con volume d’affari contenuto (inferiore a € 25.000).3

Dichiarazione Iva annuale

Tutti i soggetti titolari di Partita Iva (con qualche eccezione) devono presentare la dichiarazione Iva annuale, riepilogativa delle operazioni Iva eseguite nell’anno precedente. Di solito detta dichiarazione può essere inviata all’Agenzia delle Entrate autonomamente o assieme alla dichiarazione dei redditi Irpef/Ires e Irap.

In casi particolari, la dichiarazione Iva deve essere inviata autonomamente.

Dalla dichiarazione Iva annuale devono risultare:
• gli importi delle operazioni imponibili e delle imposte distinti per aliquota, sia per le fatture emesse che per quelle d’acquisto;
• gli importi delle operazioni non imponibili ed esenti;
• le liquidazioni periodiche eseguite (mensili o trimestrali, più l’acconto annuale) e i versamenti effettuati.


1 In base all’art. 27 della legge Iva, d.P.R. 633/72 e successive modificazioni.
2 Limiti così aggiornati dall’articolo 14, comma 11, della legge 12 novembre 2011 n. 183 (legge di stabilità 2012), per evitare il disallineamento che si era venuto a verificare tra soglie Iva e soglie imposte dirette per la tenuta della contabilità semplificata, con qualche problematica in merito alla diversa entrata in vigore delle due disposizioni.

3 Nonché una serie di soggetti che si trovano in determinate condizioni soggettive od oggettive.

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05/11/2015 - 11:54

Aggiornato il: 05/11/2015 - 11:54

4.1.2 - L'Irpef


Cos’è l’Irpef

L’Irpef (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) è un’imposta diretta che si applica su tutti i vari redditi1 posseduti dai singoli cittadini:
• redditi d’impresa;
• redditi di lavoro autonomo: attività artistiche e professionali;
• redditi di lavoro dipendente (salari, stipendi, pensioni) o assimilato (collaborazioni coordinate e continuative, a progetto, ecc.);
• redditi di capitale: dividendi o utili di partecipazione in società di capitali;
• redditi fondiari: derivanti dalla proprietà di (o altro diritto su) terreni e fabbricati;
• redditi diversi: plusvalenze da cessioni di immobili, in determinati casi; partecipazioni in società; altri redditi diversi…).

Nel calcolo dell’Irpef devono essere presi in considerazione, se esistenti, tutti i redditi sopraelencati (quindi non solo quelli derivanti dalle attività d’impresa), che formano il reddito complessivo del soggetto.

Quindi, il reddito tassato del soggetto è dato dalla somma di tutti i redditi da questo conseguiti nell’anno. Sul totale dei redditi imponibili devono poi essere applicate le relative aliquote progressive.


1 Nonché una serie di soggetti che si trovano in determinate condizioni soggettive od oggettive.

Chi deve pagare l’Irpef sui redditi d’impresa e di lavoro autonomo

► L’Irpef sui redditi d’impresa e di lavoro autonomo deve essere pagata:
• dai titolari di impresa individuale o familiare (nonché dai collaboratori familiari, proporzionalmente alla loro quota);
• dai soci di società di persone, proporzionalmente alla propria quota di partecipazione agli utili.
• dagli esercenti arti e professioni titolari di redditi di lavoro autonomo (Non versano l’Irpef, ma una imposta sostitutiva, gli imprenditori ed i lavoratori autonomi (artisti e professionisti) che si avvalgono di uno dei regimi semplificati esaminati nel capitolo precedente (ad eccezione dei «vecchi» contribuenti minimi, che dal 2012 ricominciano a pagare «normalmente» l’Irpef).

Il reddito d’impresa e/o di lavoro autonomo viene determinato secondo le regole esposte nel capitolo precedente.

Sono escluse dall’Irpef le società di capitali e gli enti assimilati, per cui è prevista un’imposta specifica chiamata Ires (Imposta sul Reddito delle Società: v. sotto).

Come si calcola l’Irpef

Il calcolo dell’Irpef non è una cosa banale ed è soggetto a frequenti cambiamenti legislativi (spesso in occasione della legge finanziaria, ora detta «di stabilità»). In questa sede diciamo solo che l’aliquota applicata varia da un minimo a un massimo a seconda dei vari scaglioni di reddito. Sull’imposta lorda si applicano poi varie detrazioni d’imposta legate all’esistenza di una serie di requisiti e condizioni, di carattere soggettivo ed oggettivo.

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09/11/2015 - 12:50

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4.1.3 - L'Ires


Cos’è l’Ires

L’Ires (Imposta sul Reddito delle Società), che ha sostituito la vecchia Irpeg – Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche,1 è un’imposta diretta che si applica principalmente sui redditi conseguiti:
• dalle società di capitali propriamente dette (S.r.l., S.r.l. unipersonali, S.r.l. semplificate, S.p.a., S.a.p.a., Società consortili, ecc.);
• dalle società cooperative.

L’imposta assorbe per definizione tutte le possibili tipologie di reddito che la società stessa può aver ottenuto. 2


1 L’Ires ha sostituito l’Irpeg dal 1° gennaio 2004. Come accennato nella nota 2, al momento in cui scriviamo si prevede che l’Ires venga a sua volta sostituita dall’Iri (Imposta sul Reddito Imprenditoriale).
2 In altri termini, il reddito prodotto dalla società configura sempre reddito d’impresa; prevale l’aspetto soggettivo.

Chi deve pagare l’Ires

L’Ires deve essere pagata dai seguenti soggetti (oltre che da alcune figure particolari di società europee, nonché da società ed enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, non residenti in Italia, che posseggano redditi, in denaro o in natura, soggetti a tale imposta in base alle norme del TUIR):

• società di capitali: S.r.l. (ordinarie, unipersonali, semplificate e a capitale ridotto), S.p.a., S.a.p.a., Società consortili ecc.);
• società cooperative e di mutua assicurazione;
• enti commerciali ed equiparati;
• enti non commerciali ed equiparati.

Come si calcola l’Ires

Il calcolo dell’Ires è notevolmente più facile di quello dell’Irpef: viene infatti applicata un’aliquota fissa ordinaria del 27,5% sul reddito della società.

In questo caso il reddito imponibile non è tuttavia quello rilevato nel bilancio civilistico, in quanto alcuni costi e ricavi non vengono riconosciuti dal Fisco. Ciò significa che una società, anche se ha sostenuto un certo costo, non può ridurre il reddito sul quale pagare l’imposta se tale costo non è accolto dalla norma fiscale.

Ad esempio, una società ha rilevato un reddito civilistico di € 100.000. Nella determinazione di questo reddito tuttavia si è tenuto conto di un costo di € 30.000 non riconosciuto dal Fisco. Quindi il reddito fiscale, senza la riduzione del costo in questione, diventa di € 130.000.

Ne consegue che applicando l’aliquota Ires del 27,5%, l’imposta dovuta ammonta a 130.000 × 0,275 = € 35.750.


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09/11/2015 - 12:50

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:50

4.1.4 - L'Irap


Cos’è l’Irap

L’Irap (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) è un’imposta diretta che si applica, a grandi linee, sul reddito prodotto svolgendo l’attività caratteristica dell’impresa o della professione.1

La normativa prevede infatti che presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi.

Essa ricade quindi:
• sulle attività d’impresa;
• sulle attività di lavoro autonomo.


1 In caso di svolgimento di attività in più regioni, il calcolo dell’imposta andrà determinato in base al valore prodotto in ogni regione

Chi deve pagare l’Irap

In linea generale si può dire che tutti i titolari di Partita Iva sono soggetti Irap.1

Sono quindi soggetti all’Irap:2
• imprese individuali (anche in forma di impresa familiare);
• società (di persone e di capitali, cooperative, consortili);
• enti (commerciali e non commerciali);
• lavoratori autonomi esercenti arti e professioni, singoli o associati.3


1 Non è vero però il contrario: possono essere soggetti ad Irap, al compiersi di determinate operazioni, anche soggetti non titolari di partita Iva (ad esempio una associazione che non svolge attività commerciali, e che pertanto opera in assenza di partita Iva, al momento in cui corrisponde somme per prestazioni occasionali a collaboratori: tali somme costituiscono base imponibile ai fini dell’Irap).
2 Occorre sottolineare che l’Irap è una delle imposte più «controverse», per la mancanza di criteri certi per determinare i soggetti ai quali deve essere applicata. Si sono succedute in proposito sentenze della Corte di Cassazione, spesso in contraddizione, senza mai riuscire ad individuare un parametro «oggettivo e misurabile» che determini l’assoggettamento all’imposta. Sono stati continuamente utilizzati, invece, criteri astratti quale quello di «autonoma organizzazione», che alimentano un contenzioso infinito.

3 Tuttavia negli ultimi anni è stato espressamente previsto che gli artisti e professionisti non siano soggetti a Irap qualora, indipendentemente dal regime contabile adottato, posseggano tutti i requisiti per l’accesso al regime dei contribuenti minimi (v. capitolo precedente). Questo perché si ravvisa in tale caratteristica l’assenza di una «autonoma organizzazione».

Come si calcola l'Irap

Il calcolo dell’Irap si articola, come per l’Ires, in due fasi: la determinazione della base imponibile e il conteggio dell’imposta.

La prima fase è estremamente complessa per diversi motivi.1
In generale si può dire che la base imponibile Irap è costituita dal valore netto della produzione derivante dall’attività svolta. Non appare il caso di approfondire ulteriormente l’argomento, dovendo necessariamente spingersi in tecnicismi che appaiono fuori luogo in questa sede.

L’Irap è una delle imposte meno sopportate da imprese e professionisti, soprattutto perché colpisce fra l’altro il costo del lavoro, sia pur con meccanismi che ne hanno mitigato nel tempo l’effetto.2


1 La legge ha definito infatti un percorso di calcolo della base imponibile specifico per tale imposta, con continui richiami alle regole previste per la determinazione della base imponibile del reddito ai fini Ires e Irpef e numerose modifiche legislative intervenute nel corso del tempo, che hanno progressivamente condotto a criteri sostanzialmente differenti per i diversi soggetti.
2 Si vedano, in proposito, anche le regole introdotte dal governo Monti con il decreto legge c.d. «salva-Italia».

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09/11/2015 - 12:50

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4.2 - La dichiarazione unificata annuale


Che cos’è il Modello Unico

Il soggetto dichiarante non deve presentare tante dichiarazioni quanti sono i tributi ai quali è assoggettato il suo reddito, ma ha la possibilità di unificare l’invio in un solo modulo che raccoglie tutte le dichiarazioni. In particolare il Modello Unico comprende:

• la dichiarazione dei redditi delle persone fisiche (vecchio Mod. 740) per i soggetti Irpef con redditi d’impresa o di lavoro autonomo, ovvero
• la dichiarazione dei redditi delle società di capitali (vecchio Mod. 760) o delle società di persone (vecchio modello 750),1
• la dichiarazione annuale Iva (salvo il caso di invio autonomo della stessa),
• la dichiarazione Irap, che tecnicamente, da qualche anno, viene però trasmessa separatamente;
• i modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, dei parametri e/o degli indicatori di normalità economica (v. oltre in proposito).


Come presentare il Modello Unico

Salvo il caso di invio diretto della dichiarazione per via telematica da parte del contribuente, la dichiarazione unificata deve essere presentata all’Agenzia delle Entrate tramite intermediari abilitati all’invio telematico dei modelli (dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, CAAF – Centri Autorizzati di Assistenza Fiscale, ecc.).

Queste innovazioni consentono all’amministrazione finanziaria di acquisire i dati molto più rapidamente (in pochi mesi invece che, come accadeva prima, in 3-4 anni) rendendo più veloci i controlli e le procedure. Restano rarissimi i casi in cui è ancora ammesso l’invio «cartaceo» a mezzo del servizio postale.

L’invio telematico della dichiarazione unificata, da qualche anno, è previsto entro il 30 di settembre dell’anno successivo a quello di riferimento.


1 Ricordiamo che le società di persone, in quanto tali, assolvono l’Irap, mentre il reddito prodotto viene imputato ai singoli soci.

 

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Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:50

4.3 - Gli studi di settore


Gli studi di settore consentono di determinare i ricavi od i compensi che possono essere attribuiti a ciascun contribuente che eserciti attività d’impresa o di lavoro autonomo.

Sono strumenti elaborati dall’Agenzia delle Entrate mediante analisi economiche e attraverso l’impiego di tecniche statistico-matematiche; vengono utilizzati dall’Agenzia stessa come supporto per programmare, organizzare, predisporre e gestire le attività di accertamento.

Per ciascun settore economico, essi individuano infatti le relazioni esistenti fra le variabili strutturali e contabili delle imprese e dei lavoratori autonomi, con particolare riferimento:

• ai processi produttivi adottati,
• all’organizzazione aziendale,
• ai beni e servizi oggetto dell’attività,
• alla localizzazione geografica,
• ad altri elementi specifici, come le aree di vendita, l’andamento dei prezzi, il livello della concorrenza, ecc.

Nel dettaglio, i dati rilevanti agli effetti dell’applicazione degli studi di settore sono di due tipi:

• dati di natura contabile (ad esempio i costi per il personale, per l’acquisizione di materie prime, per la pubblicità, ecc.);
• dati relativi alla struttura specifica dell’impresa o dell’attività professionale o artistica esercitata (ad esempio la dimensione dei locali adibiti all’attività, la ripartizione del fatturato per categorie specifiche relative ai singoli settori, la tipologia degli impianti e delle attrezzature impiegate nell’attività, ecc.).

L’introduzione in Italia degli studi di settore ha avuto avvio nel 19931 e dal quel momento ogni anno si è allargato il panorama dei soggetti interessati. Inoltre, gli studi relativi ai diversi settori di attività sono stati più volte aggiornati, ed ogni anno mediamente un terzo dei circa duecento studi di settore elaborati è oggetto di periodica revisione, al fine di renderne le risultanze più attuali ed in linea con la situazione economica dell’anno di riferimento al quale essi vengono applicati.

Gli studi di settore sono suddivisi in quattro grandi macroaree:
• servizi;
• commercio;
• manifatture;
• attività professionali.

All’interno di ogni macroarea gli studi di settore sono suddivisi per gruppi omogenei di attività (denominati «cluster»), organizzati secondo lo stesso criterio tassonomico della tabella delle attività economiche Ateco.

Essi sono caratterizzati da una lettera che ne indica il grado di «evoluzione» (cioè di revisione o aggiornamento).2


1Tuttavia solo a partire dal 1998 gli studi di settore hanno progressivamente sostituito i parametri presuntivi di ricavi, compensi e volume d’affari, che costituivano lo strumento di controllo precedentemente utilizzato.
2La lettera «T» contraddistingue gli studi revisionati e la lettera «U» quelli revisionati per la seconda volta.

 

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09/11/2015 - 12:51

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:51

4.3.1 - Le risultanze degli studi di settore


Gli studi di settore possono fornire numerose indicazioni sulle risultanze dell’attività economica o professionale dei singoli contribuenti.

Un primo livello di analisi è relativo alla coerenza economica del contribuente, determinata attraverso il confronto fra il valore di alcuni indici caratteristici dell’attività del contribuente stesso (margini di ricarico, rotazione del magazzino, incidenza dei costi del personale, ecc.).1

Le posizioni non coerenti possono essere utilizzate dall’Agenzia delle Entrate per selezionare i contribuenti da sottoporre ad ulteriori eventuali controlli.

Un secondo livello di analisi realizzato attraverso gli studi di settore è la verifica di congruità, che è volta a definire la stima dei ricavi o dei compensi presunti per ciascun contribuente, applicando i parametri economici della sua attività ad una complessa funzione statistica,2 caratteristica di ciascuno specifico cluster.

Il risultato della verifica di congruità è un numero che rappresenta l’ammontare dei ricavi o dei compensi che, sulla base dei dati economici riscontrati per ciascun contribuente, è ragionevole attendersi da lui.

Se i ricavi effettivamente conseguiti sono superiori al risultato dello studio di settore, il contribuente risulta congruo; se sono inferiori, egli risulta non congruo3 e l’Agenzia delle Entrate potrebbe, in presenza di alcune ulteriori condizioni, contestargli il mancato raggiungimento del volume di ricavi ritenuti congrui.

Un terzo livello di analisi, introdotto a partire dal 2006, è quello della cosiddetta normalità economica. Essa individua, per ciascun settore produttivo, alcuni indici detti INE (indicatori di normalità economica) per i quali la presenza di valori anomali può far pensare ad un’attività svolta in condizioni economiche «non normali».

Anche in questo caso, per ciascun INE viene individuato un intervallo all’interno del quale si collocano le attività svolte in condizioni di normalità economica: eventuali valori al di sopra del massimo o al di sotto del minimo fanno presumere che l’attività sia svolta in condizioni di non normalità e che dunque essa produca ricavi superiori a quelli ritenuti congrui.4
Alle risultanze degli studi di settore, infine, vengono applicati da alcuni anni a questa parte taluni correttivi, con il fine di tener conto di molteplici variabili, per produrre risultati più in linea possibile con l’effettiva realtà economica studiata.

 

I correttivi introdotti nel tempo sono di quattro tipi:
• rettifiche a specifici indicatori di normalità economica: è il caso dell’indice di durata delle scorte, che viene utilizzato per verificare che le rimanenze non vengano sottostimate al fine di ridurre l’utile;5
• correttivi congiunturali per specifiche attività economiche: riguardano i singoli settori in cui sono intervenute novità significative rispetto agli esercizi precedenti, soprattutto a causa di eventi congiunturali (ad esempio le rettifiche allo studio di settore per il trasporto merci su strada, in conseguenza dell’aumento del prezzo del petrolio);
• correttivi congiunturali per interi settori economici: a differenza dei precedenti si applicano a tutti i settori, sempre in conseguenza di eventi congiunturali (ad esempio la crisi economica degli ultimi anni, seppur con modalità differenti in relazione alla tipologia di attività esercitata);
• correttivi congiunturali individuali: si applicano ai singoli soggetti che, all’interno di ciascuna categoria di attività, hanno presentato conseguenze di particolare rilevanza a causa della crisi economica.


1 Con un intervallo compreso all’interno di due valori minimo e massimo, ritenuto coerente per il suo cluster di riferimento.
2 Funzione di regressione multipla.

3 A dire il vero il processo è un po’ più complesso. Al fine di graduare le diverse posizioni di non congruità, con la stessa funzione di regressione lineare con cui si determina il livello dei ricavi congrui, si determina anche un intervallo (detto «intervallo di confidenza») all’interno del quale è molto alta la probabilità che ricada il ricavo effettivo del contribuente. Di conseguenza le posizioni effettivamente verificate sono quelle per le quali i ricavi effettivi, oltre ad essere inferiori a quelli determinati tramite gli studi di settore, sono anche inferiori al limite minimo dell’intervallo di confidenza.
4 Determinati dalla funzione di regressione multipla. Di conseguenza, se un imprenditore o un professionista operano in condizioni di non normalità economica, il limite dei ricavi o dei compensi da raggiungere affinché essi siano considerati congrui è superiore al livello di congruità di altri operatori dello stesso cluster, che operino in condizioni di normalità.
5 In questo caso l’intervallo di normalità economica viene rettificato di anno in anno, per tener conto degli incrementi fisiologici delle rimanenze finali riconducibili a contrazioni delle vendite dovute alla crisi economica.

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09/11/2015 - 12:51

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:51

4.3.2 - Le attività di accertamento


Il semplice scostamento dei ricavi o compensi dichiarati, rispetto a quelli identificati dallo studio di settore, di per sé non dimostra nulla e non comporta alcuna procedura automatica di adeguamento tributario.1

Solo se ulteriori riscontri confermano che i ricavi o compensi effettivi sono realmente superiori a quelli dichiarati, l’Agenzia delle Entrate può ricorrere alle risultanze degli studi di settore e chiedere che sia il contribuente a dimostrarne l’inapplicabilità al suo caso.

In tal caso, appunto, spetta al contribuente dimostrare che – per la sua specifica situazione in un determinato esercizio – le risultanze degli studi di settore non possono essere applicate alla propria situazione, o comunque forniscono informazioni inattendibili.

Comunque, prima di procedere all’accertamento, l’Agenzia delle Entrate deve invitare il contribuente a comparire, per tentare una definizione della situazione in contraddittorio, attraverso l’istituto del concordato. Già in quest’occasione, sarà possibile – anzi, consigliabile – dimostrare all’Agenzia delle Entrate le circostanze che, considerata la specifica situazione del contribuente, rendono inapplicabile al suo caso lo studio di settore.

Se però il contribuente non si presenta all’invito a comparire, l’Agenzia delle Entrate è legittimata a procedere all’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli studi di settore, senza motivare ulteriormente la propria pretesa tributaria.

Il contradditorio preventivo con l’Ufficio delle Entrate è dunque estremamente importante, perché rappresenta il momento fondamentale nel quale il contribuente può far valere le proprie ragioni.


1 Lo scostamento rispetto al risultato parametrico costituisce infatti solamente una presunzione semplice, priva dei requisiti che la legge richiede affinché un fatto possa essere considerato come una prova nel processo tributario.

 

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09/11/2015 - 12:52

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:52

4.3.3 - I soggetti esclusi


È opportuno precisare che non tutti i contribuenti sono tenuti ad adeguarsi alle risultanze degli studi di settore, poiché alcuni sono esclusi dal loro ambito di applicazione.

In particolare, e senza pretesa di esaustività, l’accertamento tramite gli studi di settore non può essere effettuato nei confronti dei contribuenti che:

 hanno iniziato o cessato l’attività nel periodo d’imposta;
• hanno dichiarato ricavi superiori al limite dei vecchi 10 miliardi di lire;1
• determinano il reddito con criteri forfettari;
• si trovano in un periodo di non normale svolgimento dell’attività;2
• hanno modificato l’attività esercitata nel periodo d’imposta considerato, se le due attività sono soggette a studi di settore diversi.

Ai casi generali di esclusione sopra indicati, vanno poi aggiunti specifici casi di non applicazione previsti dai singoli decreti di approvazione degli studi di settore, come ad esempio il caso delle cooperative a mutualità pura.
 

L’adeguamento in situazioni di non coerenza, non congruità e non normalità

Per tutti coloro che non si trovano nelle situazioni di esclusione o inapplicabilità, gli studi di settore trovano tuttavia applicazione, indipendentemente dalla natura giuridica o dal regime contabile adottato.3
I contribuenti che non siano coerenti o congrui con le risultanze degli studi di settore possono effettuare un adeguamento nella dichiarazione dei redditi.

L’adeguamento può essere effettuato sia ai fini delle imposte dirette, che dell’Iva e dell’Irap. L’importo da pagare può consistere sia nella differenza col ricavo di riferimento puntuale, sia anche in un importo minore (purché non inferiore al ricavo minimo dell’intervallo statistico di confidenza).

Per il primo anno di applicazione o di revisione dei singoli studi di settore, i contribuenti possono adeguarsi senza applicazione di sanzioni o interessi. Per gli altri periodi d’imposta sono invece previste delle maggiorazioni, anche se di importo percentualmente non elevato rispetto ai maggiori ricavi o compensi dichiarati.

I parametri presuntivi

Per i contribuenti ai quali non si applicano gli studi di settore, o per le cui attività gli studi di settore non sono stati approvati, si applicano altri strumenti presuntivi di ricavi, compensi e volume d’affari: i parametri.

Si tratta tuttavia di uno strumento meno evoluto, che trova applicazione solamente nei confronti di soggetti che adottino un regime di contabilità semplificata o di coloro per i quali la contabilità ordinaria sia stata dichiarata inattendibile sulla base di un apposito verbale d’ispezione.
I parametri si avvalgono di soli dati di natura contabile, e devono essere comunicati congiuntamente al modello INE.
L’adeguamento ai parametri può essere effettuato ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, ma non dell’Irap. Le modalità di adeguamento sono sostanzialmente analoghe a quelle degli studi di settore, ma in questo caso non vengono applicate maggiorazioni o interessi.


1Nei loro confronti gli accertamenti vengono svolti in maniera specifica ed analitica, non parametrica.
2 Ad esempio il periodo in cui l’impresa è assoggettata ad una procedura concorsuale, o quello da cui decorre la messa in liquidazione dell’impresa; oppure quando l’attività prevista dall’oggetto sociale non è ancora iniziata per cause indipendenti dalla volontà dell’imprenditore (come il protrarsi della costruzione di un impianto o il ritardo nel rilascio di una concessione o di un’autorizzazione amministrativa).

3 Eccezion fatta per il regime dei contribuenti minimi (non soggetti a studi di settore).

 

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09/11/2015 - 12:53

Aggiornato il: 09/11/2015 - 12:53

5 - Gli aspetti giuridici


I principali aspetti giuridici e normativi che caratterizzano un'impresa in forma associata

Nel capitolo "L’organizzazione" abbiamo parlato del primo passo che deve compiere il neo-imprenditore per definire la forma giuridica dell’azienda: la scelta tra impresa individuale e società. In questo capitolo approfondiremo in particolare questo secondo aspetto.

 

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27/10/2015 - 15:48

Aggiornato il: 27/10/2015 - 15:48

5.1 - Il contratto di società


Con il contratto di società (art. 2247 c.c.) «due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili».

È un contratto con «comunione di scopo»: in esso cioè – al contrario dei contratti di scambio in cui il venditore e il compratore perseguono scopi diversi – tutti i contraenti perseguono un obiettivo comune.

Lo scopo ultimo della società è il conseguimento di un utile, mentre lo scopo immediato – detto «oggetto sociale» – rappresenta in particolare l’attività economica che si intende esercitare (es. produzione di profilati metallici, commercio all’ingrosso di alimentari, ecc.). L’indicazione dell’oggetto sociale nel contratto è richiesta obbligatoriamente per tutti i tipi di società.

Con la partecipazione alla società ogni contraente acquista la posizione di socio, ossia il diritto di partecipare «per quote» ai risultati dell’attività sociale.

La posizione di socio permette in particolare di:
• ricevere dalla società una parte degli utili realizzati mediante l’esercizio dell’attività economica;
• partecipare all’amministrazione della società;
• ricevere una quota del patrimonio realizzato all’eventuale scioglimento della società.

Se non stabilito diversamente, il potere di amministrazione, cioè la facoltà di gestione della società, implica quello di rappresentanza, cioè la facoltà di compiere atti giuridici validi verso terzi in nome e per conto della società (art. 2266 c.c.).

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29/10/2015 - 10:51

Aggiornato il: 29/10/2015 - 10:51

5.2 - Come si distinguono i vari tipi di società


I diversi tipi di società si distinguono principalmente:

• in rapporto all’«oggetto» (o scopo sociale);
• in rapporto al diverso grado di responsabilità dei soci.


Tipi societari secondo l’oggetto sociale

In rapporto all’«oggetto sociale» (o scopo sociale), il codice civile distingue tra:

• società commerciali (che esercitano una delle attività previste dall’art. 2195 c.c.)1 e
• società non commerciali (che esercitano attività economiche non commerciali, ad es. agricole o professionali): in tal caso è ammesso il ricorso alla Società semplice (v. par. successivo).


Tipi societari secondo il grado di responsabilità dei soci

In rapporto al diverso grado di responsabilità dei soci, il codice distingue tra:

• società di persone: in esse i soci hanno di norma una responsabilità «illimitata e solidale» di fronte ad eventuali rovesci societari;
• società di capitali: in esse i soci hanno invece una responsabilità limitata verso i creditori, relativa al solo capitale sociale sottoscritto: quindi in caso di perdita o di fallimento i creditori possono rivalersi esclusivamente sul patrimonio sociale.2

►«Responsabilità illimitata» significa che un socio, se la società non è in grado di pagare i creditori, risponde con tutto il suo patrimonio personale.

►«Responsabilità solidale» (o «in solido») significa che un socio risponde anche dei debiti contratti, in nome della società, dagli altri soci: se quindi i beni personali di un socio non sono sufficienti, la sua quota di debito deve essere pagata da tutti gli altri.3


1 Produzione industriale di beni e di servizi; intermediazione commerciale; attività ausiliarie delle precedenti (vedi primo capitolo, «Mettersi in proprio: la scelta imprenditoriale). Negli ultimi anni, a seguito dell’abrogazione della legge 1815/1939, sono stati introdotti casi di esercizio di attività professionali protette in società commerciali di persone (es. la società tra avvocati di cui al d.lgs. 96/2001).
2 Ciò in base al cosiddetto principio di «autonomia patrimoniale», secondo cui il patrimonio della società è distinto da quello dei soci.

3 Ciò implica anche che il creditore può decidere di soddisfarsi sui beni di un socio a sua scelta.

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09/11/2015 - 14:07

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:07

5.2.1 - Le società di persone


Le società di persone sono:

• Società semplice (S.s.);
• Società in nome collettivo (S.n.c.);
• Società in accomandita semplice (S.a.s.).

A differenza delle società di capitali, le società di persone non hanno «personalità giuridica»: non sono cioè, per lo Stato, dei soggetti giuridici pienamente distinti dalle persone dei soci. Malgrado quindi tali società possano essere titolari di diritti e doveri, la responsabilità per eventuali inadempienze finisce per trasferirsi sui soci. Di conseguenza, questi rispondono verso i terzi in modo illimitato e solidale (con l’eccezione dei soci accomandanti delle S.a.s.). In caso di fallimento, assieme alla società falliscono personalmente tutti i soci con responsabilità illimitata e solidale.

Lo strumento di individuazione delle società di persone è la «ragione sociale», che è costituita:

• dall’eventuale nome della società;
• dal nome di uno o più soci;
• dall’indicazione del «rapporto sociale» («S.n.c», «S.a.s.», ecc.).

Per esempio: «Bianchi & Rossi S.a.s.»; «Studio A di Mario Rossi & C. S.n.c.».

Il codice civile definisce la disciplina basilare delle società di persone trattando della Società semplice (S.s.). Ciò significa che laddove il Codice non prevede esplicitamente un trattamento particolare per la S.n.c. o per la S.a.s., a queste si applica la normativa disposta per la S.s.

►Nelle società di persone:

• le qualità personali dei singoli soci (competenza, abilità, correttezza, ecc.) sono più importanti dei beni conferiti alla società: il lavoro costituisce infatti il mezzo principale con cui i soci contribuiscono all’attività sociale;
• il numero dei soci è ristretto, e di conseguenza il capitale conferito nella società non è, di norma, molto elevato;
• tutti i soci (eccetto gli accomandanti nelle S.a.s.) sono responsabili con il loro patrimonio personale per i debiti sociali («responsabilità illimitata») e rispondono anche della parte di debito non pagata dagli altri soci («responsabilità solidale»);
• l’amministrazione (quindi la parte più significativa delle attività d’impresa) può spettare solo ai soci o a parte di essi.

La società semplice

Caratteristica della Società semplice (S.s.), che a sua volta la distingue da ogni altro tipo di società, è che non può esercitare attività di impresa commerciale.

Casi tipici in cui viene usata questa forma sociale sono:

• attività agricole;
• attività professionali in forma associata;1
• attività di gestione di patrimoni mobiliari 2 o immobiliari (quest’ultima consiste in genere nella riscossione di affitti di uno o più immobili).

La disciplina delle società di persone – così come configurata trattando della S.s. – prevede che i poteri di amministrazione e di rappresentanza spettino di norma a tutti i soci «disgiuntamente» (cioè senza bisogno dell’assenso degli altri soci),3 salvo che nel contratto sociale non sia stabilito diversamente.

 

1 Fino a tempi recenti la forma di S.s. è stata usata a causa della sostanziale difficoltà per i professionisti associati iscritti a un albo di esercitare la professione utilizzando la forma di società commerciale. Dopo l’entrata in vigore della legge 266/97 era venuto formalmente meno il divieto di esercitare le professioni protette sotto forma di società commerciale, anche se l’assenza di norme specifiche rendeva sempre problematico l’uso di tale veste giuridica (ad eccezione della cosiddetta «società tra avvocati», disciplinata dal d.lgs. n. 96/2001).
Al momento in cui si scrive, secondo quanto previsto dall’ultimo decreto sviluppo, le società professionali possono essere costituite nelle seguenti forme:
• società di persone;
• cooperative.
In ogni caso le nuove norme in materia di società di professionisti non incidono sui modelli societari già previsti, ma dettano solamente un quadro di regole riservate a quei professionisti che vogliono svolgere, in via associata, la propria professione.
2Spesso la Società semplice viene utilizzata unicamente al fine di detenere quote di società di capitali. È bene tuttavia sapere che molti Registri Imprese ritengono che questo tipo di attività non sia consentito alle S.s., pertanto se se ne vogliono costituire a questo scopo è opportuno informarsi preventivamente presso la Camera di commercio.
3Di solito, per avere la necessaria agilità operativa e nello stesso tempo la garanzia che qualche socio in preda a «raptus» non combini dei grossi pasticci, nelle società di persone si conviene che l’amministrazione e la rappresentanza spettino disgiuntamente per l’ordinaria amministrazione e congiuntamente per la straordinaria.

La società in nome collettivo

La Società in nome collettivo (S.n.c.), a differenza della S.s. e come tutte le società cosiddette commerciali, può esercitare sia attività economiche non commerciali sia attività d’impresa commerciale. Si costituisce con atto pubblico (cioè redatto da un notaio) o scrittura privata autenticata (redatta dalle parti e autenticata da un pubblico ufficiale).

L’atto costitutivo (ed ogni eventuale modifica successiva) deve essere iscritto entro 30 giorni dalla data di costituzione nel Registro delle Imprese presso la Camera di commercio, mediante la c.d. Comunicazione Unica, e deve contenere almeno:
• la ragione sociale, contenente obbligatoriamente, oltre ad eventuali nomi di fantasia (es.: «Tutto per la sposa», «Pensione Miramare» ecc.), il nome di uno o più soci e il rapporto sociale «S.n.c.»;
• l’indicazione dei soci e dei loro «conferimenti» (trasferimenti di denaro dal proprio patrimonio al patrimonio sociale);
• l’oggetto (cioè lo scopo) della società e la sua durata;
• l’indicazione della sede della società.1

L’indicazione della durata è importante perché lo scadere del termine costituisce il momento in cui il socio che non vuole proseguire il rapporto può chiedere lo scioglimento della società anche se gli altri non sono d’accordo; mentre prima che questa data sia raggiunta la società non può essere sciolta, salvo il verificarsi di certe circostanze (ad esempio il conseguimento dell’oggetto sociale o la volontà comune di tutti i soci).

Il singolo socio ha comunque il diritto di uscire dalla società (il che però può avvenire solo a certe condizioni e quasi mai in modo indolore).

Sarà quindi utile, all’atto della stipula del contratto di società, curare con attenzione sia la definizione del termine che le modalità di recesso dei soci.

Come sopra accennato, nelle S.n.c. ciascun socio «conferisce» (cioè apporta) una propria quota di capitale: le quote possono essere differenti, e anche la ripartizione degli utili o delle perdite – dalla quale nessun socio può essere escluso – segue di solito la stessa proporzione che si è adottata nel conferimento delle quote.2

Nessun socio può svolgere un’attività in concorrenza (direttamente o attraverso altra società di persone) senza il consenso degli altri soci.
I soci sono responsabili illimitatamente e solidalmente dei debiti della S.n.c.; il creditore, però, prima di rifarsi sui soci deve procedere esecutivamente nei confronti della società (cosiddetta «escussione» del patrimonio sociale).

Per il potere di amministrazione e quello di rappresentanza vale quanto disposto per la S.s.

► Nelle Società in nome collettivo:

• è consigliabile che i soci siano competenti nell’attività economica scelta come oggetto sociale (conoscano cioè il «mestiere»);
• la confidenza e la reciproca fiducia sono essenziali.

Nella S.n.c., infatti, tutti i soci partecipano di solito in prima persona all’attività.


1È consigliabile indicare nell’atto costitutivo il solo Comune senza specificazione di via e numero civico, che verranno invece indicati solo nella domanda di iscrizione nel Registro Imprese. Ciò consentirà di evitare il ricorso all’atto pubblico od alla scrittura privata autenticata in caso di modificazione della sede legale.
2 Possono anche convenirsi attribuzioni di utili o perdite non proporzionali alle quote.

La società in accomandita semplice

La Società in accomandita semplice (S.a.s.) è disciplinata in tutto come la S.n.c. con l’unica, ma assai rilevante, differenza che i soci vengono distinti in:

• accomandanti: sono soci non operativi.1 Dispongono di solito di mezzi finanziari e apportano il capitale, limitando però la loro responsabilità alla quota conferita;
• accomandatari: sono i soci operativi. Hanno le competenze tecniche richieste per lo svolgimento dell’attività, ed oltre al capitale apportano il loro lavoro, assumendo responsabilità illimitata e solidale.

Gli accomandanti non hanno poteri di amministrazione e rappresentanza; se violano il divieto di amministrare o rappresentare la società perdono il beneficio della responsabilità limitata. Per lo stesso motivo i loro nomi non possono comparire nella ragione sociale.

Gli accomandatari coincidono in tutto con la figura dei soci della S.n.c.

►Le società in accomandita (semplice e per azioni) possono definirsi anche «società miste» o «a responsabilità mista», data la presenza di due categorie di soci con diverso grado di responsabilità. Essi sono:

• i soci «accomandatari», responsabili illimitatamente e solidalmente: sono gli amministratori e i rappresentanti dell’impresa;
• i soci «accomandanti», con responsabilità limitata alla quota conferita: sono di solito i principali finanziatori dell’impresa, e delegano i poteri di gestione e rappresentanza agli accomandatari.

«Accomandare» significa infatti «affidare», «dare in gestione».

 

1Salvo il caso dell’«accomandante d’opera»: v. più avanti, «Alcune indicazioni utili per la scelta della forma sociale».

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09/11/2015 - 14:10

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:10

5.2.2 - Le società di capitali


Le società di capitali1 sono:

• Società a responsabilità limitata (S.r.l.);
• Società unipersonale a responsabilità limitata;
• Società semplificata a responsabilità limitata;
• Società per azioni (S.p.a.);
• Società in accomandita per azioni (S.a.p.a.).

Le società di capitali hanno «personalità giuridica»: sono cioè, per lo Stato, dei soggetti giuridici distinti dalle persone dei soci. È quindi la società, e non il singolo socio, ad essere titolare dei diritti e degli obblighi che nascono dallo svolgimento dell’attività.

Lo strumento di individuazione della società di capitali è la «denominazione sociale», che è costituita:

• dal nome della società (composto da un nome di fantasia o dal nome di uno o più soci);
• dall’indicazione del «rapporto sociale» («S.r.l.»; «S.p.a.», ecc.).

Per esempio: «Fiat Group Automobiles S.p.a.»; «Bianchi & Rossi S.r.l.».

►Nelle società di capitali:

• i beni conferiti alla società hanno maggiore importanza delle qualità personali dei soci: i capitali costituiscono infatti il mezzo principale con cui i soci contribuiscono all’attività sociale;
• è più facile cedere le proprie quote sociali;
• i creditori possono rivalersi esclusivamente sul patrimonio sociale2 (cosiddetta «responsabilità limitata»);
• l’amministrazione può spettare anche ai non soci.


1Alcuni considerano società di capitali anche le cooperative, che però hanno uno status giuridico del tutto particolare e vengono esaminate di seguito in un paragrafo a parte.
2 Con l’eccezione dell’accomandatario nella S.a.p.a.

La società a responsabilità limitata

La Società a responsabilità limitata (S.r.l.) si costituisce esclusivamente per atto pubblico, al quale può essere allegato uno statuto che regola il funzionamento degli organi sociali. Entro 20 giorni dalla data di costituzione, l’atto viene iscritto a cura del notaio sia presso l’Ufficio del Registro Imprese sia presso l’Agenzia delle Entrate nel cui territorio la società ha la sede legale, mediante la Comunicazione Unica.1

L’atto costitutivo deve contenere obbligatoriamente:
• la denominazione sociale;
• le generalità dei soci e le loro quote di conferimento;
• l’ammontare del capitale sottoscritto e versato;
• l’oggetto (cioè lo scopo) della società ed eventualmente la sua durata;
• l’indicazione della sede della società;
• le norme di ripartizione degli utili;
• l’indicazione degli amministratori e dei loro poteri;
• l’indicazione del Sindaco Unico o del revisore contabile (se esistenti);
• l’importo globale delle spese per la costituzione poste a carico della società.

Il capitale sociale di norma (art. 2463 c.2 n.4 c.c.) non è inferiore a 10.000 euro. Deve essere conferito in denaro2 (salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo) e direttamente nelle mani degli amministratori della società (non più in banca).
Ferma restando la necessità della sottoscrizione integrale del capitale sociale, una recente legge3 ha tuttavia introdotto la possibilità di determinare un capitale inferiore a 10.000 euro, purché pari ad almeno un euro.

Si hanno quindi due casi:
• capitale sociale non inferiore a 10.000 euro: i soci depositano il 25% del capitale (cioè 2.500 euro, come minimo) nelle mani degli amministratori della società con l’impegno a coprire in ogni momento la somma rimanente;
• capitale sociale tra 1 e 9.999 euro: i conferimenti, obbligatoriamente in denaro, devono essere versati per intero nelle mani degli amministratori. Inoltre una somma pari ad 1/5 degli utili netti risultanti dal bilancio annuale deve essere destinata a riserva legale finché il patrimonio netto non abbia raggiunto i 10.000 euro.4

Il capitale sociale è diviso in quote, detenute dai diversi soci, che hanno il potere in proporzione al numero di quote in loro possesso. Essendo stato abolito dal 2009 il libro dei soci per la S.r.l., la proprietà delle quote e i loro trasferimenti sono registrati presso il Registro Imprese della Camera di commercio.

I bilanci sono pubblici e devono essere depositati presso il Registro Imprese.

La S.r.l.:

• risponde dei propri debiti esclusivamente con il proprio patrimonio, escludendo quindi le proprietà personali dei soci (al di fuori della quota conferita);
• ha come organo deliberante l’Assemblea dei Soci;5
• ha come organo amministrativo, secondo la scelta dei soci:

- o un Amministratore Unico;
- o un Consiglio di Amministrazione, che può delegare la maggior parte dei propri poteri ad un consigliere (l’«Amministratore Delegato»);6

• può disporre di:
- un organo di controllo (Sindaco Unico od eventualmente, se previsto dallo statuto, Collegio Sindacale),7 che verifica la correttezza dell’amministrazione e l’adeguatezza dell’assetto amministrativo;
- un revisore contabile, che esercita il cosiddetto controllo contabile.

L’organo di controllo e il revisore contabile sono obbligatori solo in presenza di determinate condizioni previste dall’art. 2477 c.c. 8

► La S.r.l. è un tipo di società in cui l’elemento personale è abbastanza importante, ma contemporaneamente si ha il vantaggio della responsabilità limitata: copre quindi la fascia di imprese con dimensioni medie,9 superiori alla S.n.c. ed inferiori alla S.p.a. (infatti ha di norma un capitale minimo obbligatorio di 10.000 euro contro i 50.000 euro della S.p.a).10

 

1A seguito della Legge n. 340/2000, l’atto costitutivo non deve più essere sottoposto ad omologazione da parte del Tribunale.
2A tale proposito il Consiglio Nazionale del Notariato ha emanato una nota in data 4 settembre 2013, chiarendo che per la costituzione delle nuove S.r.l. possono essere utilizzati:
• assegni circolari (intestati ad uno degli amministratori o alla società);
• denaro contante (solo per importi inferiori ai 1.000 euro);
• bonifico bancario a favore di uno degli amministratori.
3Il d.l. 28 giugno 2013 n. 76, convertito in legge 9 agosto 2013 n. 99.
4 Dal 2004, il conferimento può avvenire anche mediante la stipula di una polizza assicurativa o di una fideiussione bancaria a garanzia degli obblighi assunti dai soci. Possono inoltre far oggetto di conferimento anche tutti gli elementi di attivo suscettibili di valutazione economica.
5 Per quanto riguarda le modalità di assunzione delle deliberazioni dei soci, dal 2004 non è più obbligatoria la cosiddetta modalità collegiale (riunione dei soci in luogo e data prestabilita), ma l’atto costitutivo può prevedere modi più agili ed informali di consultazione e di consenso scritto (lettera, fax ecc.). In casi particolari (es. le modifiche dell’atto costitutivo) viene tuttavia mantenuto l’obbligo della deliberazione collegiale.
6Dal 1.1.2004 l’amministrazione può essere delegata anche a dei Co-Amministratori, i quali, operando disgiuntamente, non formano un Consiglio di Amministrazione.
7 Dal 2011 per la S.r.l. il codice civile prevede in via ordinaria la figura del Sindaco Unico e solo in alternativa quella tradizionale del Collegio Sindacale.
8L’art. 20 comma 8 del «decreto competitività» (d.l. 91/2014) ha abrogato l’obbligo di nominare un organo di controllo o un revisore contabile nelle S.r.l. con un capitale sociale uguale o superiore a quello minimo stabilito per le S.p.a. L’organo di controllo resta tuttavia obbligatorio quando la S.r.l.:
• è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;
• controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;
• per due esercizi consecutivi ha superato due dei limiti indicati dal 1° comma dell’articolo 2435-bis del codice civile [1. totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4.400.000 euro; 2. ricavi delle vendite e delle prestazioni: 8.800.000 euro; dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 50 unità]. L’obbligo cessa se, per due esercizi consecutivi, due dei predetti limiti non vengono superati.
9 Da quando è stata introdotta la S.r.l. unipersonale (e ancor più con la recentissima introduzione delle S.r.l. semplificate) questo tipo di società può essere utilizzato anche per imprese con dimensione aziendale minima ma soggette a forte rischio di capitale.

10 Come segnalato nel cap. 11, il l c.d. «decreto competitività» (d.l. 24 giugno 2014 n. 91, entrato in vigore il 25 giugno 2014), ha introdotto importanti modifiche al codice civile sulle disposizioni societarie. Tra queste la riduzione della soglia minima di capitale per la costituzione di una S.p.a, che è passata da 120.000 a 50.000 euro.

La Società unipersonale a responsabilità limitata

Recependo una normativa dell’Unione europea,1 è stata introdotta anche nel nostro sistema la possibilità che la S.r.l. venga costituita con un unico socio.

Con questa novità, anche gli imprenditori individuali possono usufruire della limitazione di responsabilità.

In effetti è sempre stato possibile, nel nostro ordinamento, che una società di capitali si trovasse nel corso del tempo ad avere un solo socio, ma in tal caso questo perdeva il beneficio della responsabilità limitata. La nuova disciplina riconosce invece la possibilità che la S.r.l. venga costituita fin dall’inizio con un unico socio «fondatore» (e quindi, eccezionalmente, non con un contratto tra più persone ma con un’enunciazione unilaterale).

Il socio unico beneficia della limitazione di responsabilità2 purché:
• non sia una «persona giuridica» (cioè per es. una S.p.a. non può essere socio unico di una S.r.l. unipersonale)3 o socio unico di altre società di capitali (cioè in pratica non può possedere un’altra S.r.l. unipersonale);
• abbia effettuato i conferimenti dal proprio patrimonio al patrimonio sociale nei modi e nei termini stabiliti dalla legge;
• abbia fatto constatare nei modi dovuti la unipersonalità della S.r.l. al Registro Imprese della Camera di commercio.


1Decreto legislativo 3 marzo 1993 n. 88, in conformità alla Direttiva Comunitaria n. 667 del 1989.
2Dal 2004, la responsabilità diventa illimitata se, previamente verificatosi lo stato di insolvenza, il socio unico non abbia provveduto al versamento del capitale o non abbia dichiarato al Registro Imprese che le quote sono di spettanza di un solo soggetto.
3 In generale è un problema dibattuto se il socio di una società possa essere una persona giuridica, oltre che una persona fisica (cioè ad es. se una S.r.l. possa essere socia di una S.n.c., di una S.p.a., ecc.).

La Società semplificata a responsabilità limitata

Nel corso del 2012 è stato introdotto un nuovo modello societario: la Società semplificata a responsabilità limitata la cui disciplina, nell’anno successivo, ha subito alcune importanti modificazioni.1

All’inizio la S.r.l. semplificata poteva essere costituita solo da persone fisiche di età inferiore ai 35 anni: tale limite è stato eliminato,2 per cui possono partecipare alla S.r.l. semplificata persone fisiche di qualunque età.

La costituzione deve avvenire con atto pubblico: quindi con l’intervento del notaio, ma con esenzione dall’onorario notarile.

L’atto costitutivo deve essere depositato a cura del notaio o degli amministratori all’ufficio del Registro Imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale, così come gli atti modificativi e gli eventuali trasferimenti di quote.3 Le relative denunce sono esenti da bollo e da diritti di segreteria.

Il capitale sociale minimo deve essere:
• di almeno 1 euro;
• inferiore ai 10.000 euro, limite minimo «ordinario» per le S.r.l.;
• sottoscritto ed interamente versato in denaro all’organo amministrativo all’atto della costituzione.

Un apposito decreto ministeriale4 ha formulato la versione tipizzata ed inderogabile dello statuto ed ha individuato i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci. L’amministrazione, inizialmente riservata ai soli soci, può ora essere affidata anche a persone esterne alla società.

I vantaggi di questo nuovo tipo di società sono sostanzialmente riconducibili ad una riduzione dei costi iniziali e ad uno snellimento delle procedure per la costituzione della società e le sue variazioni.

Trattandosi di forma giuridica nuova, ancor priva della necessaria elaborazione giurisprudenziale, è consigliabile rivolgersi alla Camera di commercio od ad altro soggetto qualificato per conoscere nel dettaglio le caratteristiche del contratto societario.


1La S.r.l. semplificata è stata introdotta con l’articolo 3 del decreto legge n. 1 del 24 gennaio 2012, convertito con modificazioni nella legge n. 27 del 24 marzo 2012. Successivamente con il decreto legge 28 giugno 2013, convertito nella legge 9 agosto 2013 n. 99, sono state apportate significative modificazioni e, al contempo, sono state soppresse le S.r.l. a capitale ridotto.
2Con il decreto legge 76/2013, convertito in legge 99/2013.
3I trasferimenti di quote a favore di soggetti ultratrentacinquenni, in un primo tempo nulli, sono ora possibili data la possibilità di partecipazione di soci di qualunque età anagrafica.
4D.m. 138/2012, entrato in vigore il 29 agosto 2012.

La società a responsabilità limitata a capitale ridotto

Questa forma societaria è stata eliminata dall’ordinamento giuridico con la medesima normativa (vedi nota 24) con cui è stata modificata la disciplina della S.r.l. semplificata, che ne ha, per così dire, riassorbito le principali caratteristiche.

Le S.r.l. a capitale ridotto già operative ed iscritte nel Registro Imprese sono state convertite di diritto in S.r.l. semplificate.

La società per azioni

È estremamente improbabile che chi si mette in proprio voglia aprire di primo acchito una Società per azioni (S.p.a.), in quanto questa forma sociale è adatta esclusivamente per le grandi imprese. Per completezza di informazione, tuttavia, ne diamo di seguito qualche cenno.

Per le S.p.a. valgono di massima le stesse disposizioni delle S.r.l., con queste differenze:

• l’organo di controllo gestionale interno è obbligatorio in tutti i casi ed è rappresentato dal Collegio Sindacale;1
• il controllo contabile è esercitato da un revisore contabile;2
• il capitale sociale non può essere inferiore a 50.000 euro;3
• esso inoltre non è suddiviso in quote ma in azioni, cioè in titoli di credito liberamente acquistabili e vendibili sul mercato (v. riquadro di seguito);
• riguardo all’organo amministrativo, oltre allo schema classico (Amministratore Unico o Consiglio di Amministrazione) sono ora possibili anche altri schemi tratti dal diritto di altri Paesi europei.4

Dato il forte rilievo nella vita economica del Paese, il legislatore ha previsto per le S.p.a., oltre al controllo interno (dato dal Collegio Sindacale), anche due tipi di controllo esterno:

• quello esercitato dalla CONSOB, che controlla la correttezza delle operazioni delle società quotate in borsa od in mercati regolamentati;
• quello esercitato dalle società di revisione, che certifica la regolare tenuta delle scritture contabili e del bilancio da parte delle S.p.a. emittenti azioni quotate in mercati regolamentati.

La S.p.a. è il tipo di contratto sociale più adatto per la costituzione delle grandi imprese, in quanto consente di reperire ingenti capitali. I settori più interessati sono generalmente il credito, la finanza, la grande industria, la grande distribuzione commerciale, ecc.

Azioni ed obbligazioni: per saperne di più

In una S.p.a. (o in una S.a.p.a.) il capitale sociale può essere diviso in un numero predeterminato di quote che abbiano valore uguale. Se ad esempio una S.p.a. ha un capitale di 300.000 euro, può dividerlo in 300.000 quote da 1 euro ciascuna; ogni quota viene rappresentata da un documento chiamato azione, che può essere liberamente acquistato e venduto sul mercato.

Chi acquista una o più azioni diventa automaticamente socio della società che le ha emesse.

L’azione è un titolo di credito «nominativo», in quanto deve generalmente riportare il nome del titolare (in casi circoscritti e ben determinati sono ammesse la azioni «al portatore»).

 L’azione esprime la misura in cui il socio partecipa alla società: ad esempio se un socio conferisce 1.000 euro, avrà 1.000 azioni; se conferisce 2.000 euro 2.000 azioni, e così via.

Oltre alla quota di partecipazione, l’azione incorpora anche i diritti del socio: diritto al «dividendo» (cioè alla distribuzione degli utili tra i soci), diritto di voto nelle assemblee (se previsto), ecc.

Le azioni possono essere di diversi tipi. I più ricorrenti sono:

• azioni ordinarie;
• azioni privilegiate (con priorità nella distribuzione degli utili, e generalmente con limitazione del diritto di voto a determinati argomenti);
• azioni di risparmio (non comportano diritto di voto; costituiscono una categoria particolare di azioni privilegiate, create per promuovere l’investimento azionario dei piccoli risparmiatori).

Per raccogliere denaro, oltre ad emettere azioni – con il conseguente aumento di capitale sociale – le S.p.a. (e dal 2004 anche le S.r.l.) possono offrire delle obbligazioni, cioè dei titoli non legati al capitale sociale. A differenza delle azioni, le obbligazioni non incorporano lo status di socio, ma solo un diritto di credito.5


1Composto da sindaci effettivi (da tre a cinque) e sindaci supplenti (due).
2Nelle S.p.a. che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, il controllo contabile può essere svolto dall’organo di controllo interno.
3Vedi nota 21. Diversamente che per le S.r.l., il versamento del 25% del capitale non è sostituibile da altre garanzie; inoltre non possono essere oggetto di conferimento le prestazioni d’opera o di servizi.
4Nel primo schema, detto dualistico, abbiamo due organi: l’Assemblea dei Soci elegge infatti un Consiglio di Sorveglianza (organo di controllo della gestione), che nomina a sua volta un Consiglio di Gestione (organo amministrativo). Nel secondo schema, detto monistico, si ha invece un solo organo: il Consiglio di Amministrazione, che elegge nel suo seno un Comitato per il controllo di gestione. Si ha in quest’ultimo caso un organo formalmente unico ma con distinzione di funzioni tra i componenti (alcuni «operativi» ed altri incaricati del controllo gestionale).

5 In caso di emissione di «obbligazioni convertibili» il creditore può scegliere tra la restituzione di quanto prestato alla società o l’acquisizione di un certo numero di azioni secondo un rapporto predeterminato con le obbligazioni sottoscritte
 

La Società in accomandita per azioni

La Società in accomandita per azioni (S.a.p.a.) è un tipo societario usato rarissimamente nel nostro Paese, e fonde le caratteristiche:

• della S.a.s. (soci accomandatari amministratori e illimitatamente responsabili degli obblighi sociali) e
• della S.p.a. (le quote sono rappresentate da azioni, la disciplina per il funzionamento è analoga a quella della S.p.a.).

I soci accomandatari sono amministratori di diritto, e possono essere revocati dai soci (accomandatari e accomandanti riuniti insieme in assemblea) che siano titolari della maggioranza del capitale sociale.

Classificazione delle società secondo il grado di responsabilità dei soci

Società in cui ogni socio è personalmente responsabile

Società semplice e Società in nome collettivo

Società in cui solo alcuni soci sono personalmente responsabili

Società in accomandita semplice e Società in accomandita per azioni

Società in cui nessun socio è personalmente responsabile

Società a responsabilità limitata (*) e Società per azioni

(*) Comprese le S.r.l. unipersonali e semplificate.

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09/11/2015 - 14:16

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:16

5.2.3 - Le società cooperative


Le Società cooperative meritano un cenno a parte. A differenza delle società lucrative (di persone e di capitali) le cooperative si caratterizzano per il fatto di perseguire uno «scopo mutualistico»: quest’ultimo è diverso dallo scopo di lucro, in quanto non consiste nel conseguire un utile, ma un «beneficio» genericamente inteso.

La cooperativa si può definire infatti come l’unione di persone che svolgono un’attività economica a favore dei soci stessi, per ottenere beni, servizi o retribuzioni a condizioni più vantaggiose di quelle ottenibili sul mercato.

Nelle cooperative i soci, oltre ad essere produttori, sono anche consumatori di parte dei beni e servizi prodotti: scopo della società non è quindi quello di realizzare degli utili e distribuirli tra i soci, ma di vendere ai soci stessi beni e servizi a prezzi di favore, senza quel margine di profitto normalmente applicato dalle imprese commerciali nelle vendite a terzi.

Allo scopo mutualistico può aggiungersi, entro certi limiti, anche lo scopo di lucro, che rimane tuttavia puramente secondario. In pratica, infatti, i beni e i servizi prodotti non consumati dai soci vengono venduti anche ai non soci; i prezzi praticati, sia pure inferiori a quelli di una normale impresa commerciale, sono fissati di solito in modo da conseguire degli utili. Questi verranno distribuiti ai soci solo entro certi limiti, per non perdere le agevolazioni accordate dalla legge.

Non avendo per obiettivo il profitto (cioè la retribuzione del capitale), le cooperative non possono avere nel bilancio annuale un utile da ripartire tra i soci superiore ad una minima percentuale del capitale sociale.1

I soci devono essere almeno nove o – a determinate condizioni – almeno tre.2 Dopo la riforma del diritto societario, per tutte le obbligazioni sociali risponde la sola società cooperativa con il proprio patrimonio.3

La riforma del diritto societario del 2004 ha introdotto il principio della cosiddetta «mutualità prevalente»,4 la cui certificazione è di competenza del Ministero dello sviluppo economico mediante l’iscrizione in un apposito Albo che consente l’accesso alle agevolazioni previste dalla legge. L’adempimento rientra tra quelli effettuabili tramite la Comunicazione Unica.

Quanto alle forme della costituzione, all’amministrazione ed al controllo valgono di massima le norme sulle S.p.a. Tuttavia nell’atto costitutivo i soci possono prevedere la scelta della disciplina delle S.r.l., ma solo per le cooperative con meno di venti soci o con attivo patrimoniale non superiore ad un milione di euro. Le cooperative con almeno tre soci e meno di nove soci devono invece adottare le stesse norme della S.r.l.

I vari tipi di cooperative

Le cooperative possono essere di vario tipo a seconda dell’attività svolta e delle dimensioni. Ad esempio:
• cooperative di consumo: acquistano merci all’ingrosso dal produttore per venderle ai soci (o a terzi) a prezzi economici, consentendo di ottenere un risparmio mediante la riduzione dei costi;
• cooperative di produzione e lavoro: i lavoratori divengono imprenditori di se stessi. Svolgono un’attività di produzione di beni o servizi;
• cooperative agricole: sono molto diffuse ed operano sia nel campo della produzione che in quello della lavorazione e conservazione dei prodotti agricoli, nonché dell’allevamento del bestiame;
• cooperative edilizie: provvedono alla costruzione o all’acquisto di immobili, da affittare o da vendere ai soci;
• cooperative di credito: raccolgono capitali dai soci per procurare agli stessi (ed eventualmente a terzi) i finanziamenti necessari a condizione di favore;
• cooperative sociali (l. 381/91): operano nell’interesse della collettività attraverso la gestione di servizi socio sanitari ed educativi oppure lo svolgimento di qualsiasi tipo di attività, se finalizzato all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate; beneficiano di apposite agevolazioni.5

 

1Caratteristica peculiare delle cooperative è la variabilità del capitale in rapporto al variare del numero dei soci.
2 Fino al 2001 il codice civile prevedeva che per costituire una cooperativa ci volesse un minimo di 9 soci, mentre con un numero di soci da 3 a 8 si poteva costituire una piccola società cooperativa. Con la riforma del diritto societario del 2004 l’istituto giuridico della piccola cooperativa è stato abrogato, ma ad oggi è comunque sempre possibile – a determinate condizioni – costituire società cooperative con un numero di soci minimo di 3. Recita infatti l’art. 2522 c.c.: «Per costituire una società cooperativa è necessario che i soci siano almeno nove. Può essere costituita una società cooperativa da almeno tre soci quando i medesimi sono persone fisiche e la società adotta le norme della società a responsabilità limitata (...)».
3Inoltre non esiste più la distinzione tra cooperative a responsabilità limitata e cooperative a responsabilità illimitata: i soci della cooperativa assumono sempre, per le obbligazioni sociali, una responsabilità limitata al solo capitale sottoscritto.
4Consistente nella prevalenza, ad esempio:
• dell’attività svolta a favore dei soci;
• degli apporti di beni e servizi da parte dei soci;
• ecc.
5Le cooperative sociali sono riconosciute dal d.lgs. 460/97 quali ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale), soggetti, cioè, che si organizzano in forma imprenditoriale per il conseguimento di finalità sociali.

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09/11/2015 - 14:17

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:17

5.2.4 - Un particolare tipo di società di capitali: la Start up innovativa


È stato recentemente introdotto nell’ordinamento italiano1 un quadro organico di riferimento per favorire la nascita e lo sviluppo di imprese innovative. Secondo la definizione data dalla legge la Start up innovativa è una società di capitali (S.p.a., S.r.l., cooperativa) non quotata in mercati regolamentati, che possiede determinati requisiti:

• maggioranza del capitale detenuto da persone fisiche;
• sede principale in Italia;
• valore della produzione annua, a partire dal secondo anno, di non oltre 5 milioni di euro;
• assenza di distribuzione di utili;
• oggetto sociale dedicato in modo esclusivo o prevalente allo sviluppo, alla produzione e commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto contenuto tecnologico.

La Start up deve inoltre:
• sostenere spese di ricerca o sviluppo pari o superiore al 15% del maggior importo tra costo e valore della produzione, oppure
• impiegare per almeno un terzo del totale personale altamente qualificato, oppure
• essere titolare o licenziataria di privativa industriale relativa ad invenzioni industriali.

È stata istituita una sezione speciale del Registro Imprese nella quale le società di capitali devono iscriversi se vogliono acquisire lo status giuridico di Start up. Tale iscrizione ha carattere costitutivo, per cui le agevolazioni fiscali, alcune deroghe al diritto societario e la disciplina particolare nei rapporti di lavoro nell’impresa, previste dalla normativa sulle Start up, possono applicarsi solo completato tale adempimento.

Per informazioni più approfondite è bene consultare l’apposito sito predisposto dal sistema camerale: http://startup.registroimprese.it/


1 Con decreto legge 179/2012, convertito nella legge 221/2012.

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09/11/2015 - 14:18

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:18

5.2.5 - Altre forme sociali


Questa figura è stata introdotta già da diversi anni nel nostro ordinamento in conformità alla normativa comunitaria (Regolamento CEE n. 2137/85) ed è finalizzata a favorire la collaborazione di tre soggetti economici nell’ambito Ue: infatti questo tipo di società può essere costituito solo tra contraenti appartenenti ad almeno due Paesi comunitari con un massimo di venti membri.

La relativa disciplina (Contenuta nel decreto legislativo 23 luglio 1991 n. 240) prevede che il GEIE debba essere costituito per atto scritto e che l’atto costitutivo e le successive modificazioni siano soggetti, oltre che alla pubblicità nazionale (iscrizione nel Registro delle Imprese) anche alla pubblicità a livello comunitario.

La responsabilità dei soci GEIE è illimitata e l’amministrazione può spettare (diversamente da tutti gli altri casi) anche ad una persona giuridica, attraverso un suo rappresentante. Data la sua particolare natura questo tipo di società è assoggettato ad agevolazioni comunitarie.

Una disciplina apposita è prevista anche sotto il profilo fiscale sia per quanto riguarda le imposte dirette che le indirette: in particolare, ai fini delle imposte sui redditi, i redditi e le perdite del GEIE sono imputati direttamente a ciascun membro anziché al Gruppo.

Il consorzio

Il Consorzio è un contratto con cui più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.

La differenza sostanziale tra la società commerciale e il consorzio è che la prima è finalizzata all’esercizio di un’impresa, mentre il secondo è costituito da più imprese per condividere risorse o servizi o per meglio organizzare un’attività economica.

Il contratto di consorzio deve essere redatto per iscritto, indicando:
• l’oggetto e la durata;
• gli obblighi dei consorziati;
• le condizioni che regolano ammissione, esclusione e recesso dei soci;
• gli organi e le persone che hanno la rappresentanza e l’amministrazione;
• le modalità di scioglimento.

Quando l’attività consorziata ha un rilievo esterno (ad es. un consorzio per l’acquisto o per la vendita) il legale rappresentante deve iscrivere il consorzio nel Registro delle Imprese.

La società consortile

Invece che con un consorzio vero e proprio, l’attività svolta con finalità consortili può essere perseguita anche con una società commerciale: tipicamente la S.r.l. o la S.p.a., che assumono la denominazione:

• «Società consortile a responsabilità limitata», o
• «Società consortile per azioni».

In tali casi si applica la normativa del tipo sociale di riferimento (alla S.r.l. consortile cioè si applicano le norme della S.r.l. e non quelle del consorzio).

Il contratto di rete

Oltre al consorzio occorre accennare per affinità ad un nuovo strumento, introdotto nell’ordinamento giuridico nel 20091 e più volte modificato: il Contratto di rete, che la legge mette a disposizione degli imprenditori per creare aggregazioni d’impresa sinergiche, organizzate e durature, fruendo al contempo di incentivi ed agevolazioni fiscali.

Tale strumento, redatto in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, può limitarsi ad un profilo di accordo contrattuale tra soggetti del tutto autonomi, oppure assumere soggettività propria mediante costituzione di un fondo patrimoniale e di un organo comune destinato a rapportarsi con i terzi.

Nel primo caso il Contratto di rete deve essere depositato nel Registro Imprese di tutte le Camere di commercio nei cui territori hanno sede i soggetti partecipanti.

Nel secondo caso il Contratto acquisisce personalità giuridica autonoma di «Rete di imprese» e va iscritto nella sezione ordinaria del Registro Imprese della Camera di commercio in cui è stabilita la sua sede legale.


1Dalla legge 9 aprile 2009 n. 33.

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09/11/2015 - 14:19

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:19

5.2.6 - Società irregolari


Le società commerciali regolarmente costituite e registrate nel Registro delle Imprese della Camera di commercio si dicono regolari. Vi sono peraltro società che presentano anomalie nell’iter costitutivo e non risultano iscritte nel Registro delle Imprese: tali società si definiscono irregolari.

In tutti i casi di questo tipo, per la responsabilità dei soci verso i terzi si applicano le norme previste per la S.s. (ogni socio può essere chiamato a rispondere illimitatamente e solidalmente).

Un’altra conseguenza pratica è che – non essendo possibile l’iscrizione nel Registro delle Imprese – vi sono ricadute fortemente negative sulla possibilità di effettuare le normali procedure amministrative per l’esercizio dell’attività prescelta (es. invio SCIA, richiesta autorizzazioni ecc.).

Società di fatto

Tra le società irregolari, una forma ormai praticamente estinta è quella della Società di fatto (S.d.f.). Pur se non espressamente regolate dal codice civile attuale (lo erano col codice precedente del 1865), sono assimilate alle Società in nome collettivo irregolari (che cioè non hanno depositato l’atto costitutivo al Registro delle Imprese).

Fino a poco tempo fa, quando più persone avevano un interesse comune in un’attività imprenditoriale, potevano costituire una Società «di fatto», cioè senza un accordo scritto. In tal modo venivano meno le spese che la costituzione di una società regolare comporta (notaio, Registro delle Imprese, ecc.). Oggi la costituzione di una S.d.f. è teoricamente possibile (soprattutto per gli artigiani, visto che le norme vigenti in materia continuano a prevederla), ma di fatto impraticabile. Esiste infatti una precisa volontà politica di eliminare questa forma irregolare. Da molti anni ormai il Registro delle Imprese della Camera di commercio non accetta più alcuna nuova iscrizione di Società di fatto. Ne deriva che la S.d.f. non è in grado di ottenere e produrre ad altri una pubblica certificazione della propria esistenza, con conseguenze paralizzanti sotto il profilo dell’operatività.

Società occulte

Oltre alle S.d.f. esistono altre forme irregolari, che però non è il caso di approfondire in questa sede. Accenniamo brevemente alle società occulte, che si formano quando più persone convengono di gestire segretamente un affare in comune: l’attività sociale viene svolta da uno dei soci «in nome proprio» (iscrivendosi cioè al Registro Imprese come imprenditore individuale), mentre l’esistenza degli altri soci viene mantenuta segreta. In tal caso i soci occulti, se scoperti, risponderanno illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali e potranno perfino essere dichiarati falliti.

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29/10/2015 - 11:08

Aggiornato il: 29/10/2015 - 11:08

5.3 - La scelta delle forme sociali


Per scegliere la veste giuridica più adeguata alle nostre esigenze, dobbiamo infatti chiederci se:

  • L’attività che stiamo per avviare si configura come «impresa»;
  • Perseguiamo uno «scopo di lucro» (realizzare un profitto) o un «fine mutualistico» (ottenere altri vantaggi di carattere patrimoniale, come risparmi di spesa, salari più alti ecc.);
  • L’attività ha natura «commerciale» (ai sensi del codice civile), agricola o artigiana;
  • Vogliamo condurre l’attività in forma individuale (eventualmente con la collaborazione dei familiari) o collettiva (cioè tramite una società).

Quando avviare una società di persone

Di norma chi intende intraprendere in forma associata una piccola attività (per esempio un bar, un negozio, un’officina, ecc.) sceglie una forma giuridica che rientra nell’ambito delle società di persone, e cioè:

• la Società in nome collettivo: costituisce la soluzione normale quando tutti i soci partecipano all’impresa;
• la Società in accomandita semplice: consente di distinguere eventuali soci che non partecipano personalmente all’attività (sia ai fini della partecipazione alle decisioni gestionali, sia ai fini della responsabilità patrimoniale).

Spesso la Società in accomandita semplice viene scelta come alternativa all’Impresa familiare (soprattutto da quando è stata impedita a quest’ultima la ripartizione in parti uguali del reddito imponibile): ciò vale soprattutto nel caso che un parente (il genitore, il coniuge, ecc.) sia comproprietario dell’azienda e non partecipi all’attività.

La S.a.s. tuttavia non riguarda solo i rapporti con familiari, ma anche con estranei: in questo caso gli accomandanti sono generalmente i finanziatori dell’impresa (anzi all’origine la S.a.s. era nata proprio per questo scopo: il nobile, che per «decoro» non poteva lavorare, conferiva un capitale al mercante, che gestiva l’impresa. Il nome di questo istituto era «commenda»).

Se poi l’imprenditore vuole ottenere finanziamenti da un privato senza «portarselo in casa» può ricorrere al contratto di Associazione in partecipazione (vedi par. seguente).

La S.a.s. da alcuni anni a questa parte viene anche utilizzata per impiegare persone come «dipendenti di fatto», risparmiando i costi e gli oneri previdenziali previsti per i dipendenti a tutti gli effetti: a tal fine i soci in accomandita, anziché assumere regolarmente una persona la fanno entrare in società come socio «accomandante d’opera», che conferisce il proprio lavoro invece del capitale. Questa soluzione va utilizzata con estrema cautela, potendo debordare da un lato nel rapporto di lavoro subordinato e dall’altro in rapporto di fatto di Società in nome collettivo, in entrambi i casi con conseguenze molto sgradevoli.

Quando avviare una società di capitali

Quanto alle società di capitali, è evidente che si tratta di forme sociali riservate ad una limitata percentuale di imprese con dimensioni superiori alla media.1

Come sopra accennato, nel caso di imprese medio-grandi la scelta è ristretta:
• alle Società per azioni, che richiedono un impegno economico minore che in passato ma non ancora alla portata di tutti (dal 25.6.2014 devono avere un capitale sociale di almeno 50.000 euro, contro i 120.000 richiesti in precedenza), e
• alle Società in accomandita per azioni (poco diffuse nel nostro Paese).

Supponiamo che alla grande maggioranza dei nostri lettori non interessi aprire una S.p.a. o una S.a.p.a., per cui non ne faremo ulteriormente cenno in questa sede.

L’unica forma di società di capitali che si riscontri con relativa frequenza – soprattutto nel caso di imprese medio-piccole o medie – è la Società a responsabilità limitata.

L’utilità di ricorrere a questa forma sociale è legata sostanzialmente:
• alla limitazione di responsabilità (anche se in caso di contratti impegnativi qualunque operatore accorto richiede una serie di garanzie, personali e non, che finiscono per rendere meno significativa questa limitazione);
• alla maggior formalizzazione dei rapporti tra i soci e con i terzi, che consente una gestione adeguata nel momento in cui il capitale impegnato supera una certa soglia.

L’importo minimo richiesto per il capitale delle S.r.l., pari di norma a 10.000 euro, è relativamente basso e non costituisce certo un punto di riferimento per la soglia di cui parliamo, che comunque va individuata in concreto volta per volta con l’aiuto di un professionista di fiducia.

Due casi particolari sono costituiti:
• dalla S.r.l. unipersonale, che come sopra accennato consente anche ai singoli imprenditori – con aziende solitamente piccole o piccolissime – di avviare una società di capitali beneficiando della limitazione di responsabilità. Dal 1997, la possibilità di utilizzare la S.r.l. unipersonale è stata estesa anche agli artigiani; dal 2001 anche le S.r.l. pluripersonali sono iscrivibili, a certe condizioni, nell’Albo delle imprese artigiane;
• dalla S.r.l. semplificata, pensata per i neo-imprenditori senza limiti di età: per la costituzione occorre l’intervento del notaio ma vige l’esenzione dall’onorario notarile; le procedure sono ridotte ai minimi termini ed il capitale sociale è simbolico (1 euro). Si tratta comunque di una forma giuridica da considerare provvisoria nel caso in cui l’iniziativa imprenditoriale assuma dimensioni rilevanti.

Accade spesso, comunque, che in rapporto all’andamento dell’impresa e al mutare della normativa (specialmente quella fiscale) si abbiano trasformazioni da società di persone a società di capitali (soprattutto da S.n.c. a S.r.l.), e viceversa.


1Per le differenze tra imprese «micro», «piccole», «medie» e «grandi» secondo la classificazione statistica italiana v. capitolo 1; secondo la classificazione comunitaria, ai fini delle agevolazioni, vedi capitolo seguente.

Quando avviare una cooperativa

In generale, il ricorso alla forma cooperativa può essere utile soprattutto per accedere a determinate agevolazioni (v. in proposito cap. seguente).

Esistono tuttavia delle controindicazioni. Infatti alcune caratteristiche delle cooperative – l’elevato numero minimo di soci necessario per costituirle, ma anche le diverse limitazioni a cui sono sottoposte – le rendono poco compatibili con diverse attività di servizi (ad esempio un’agenzia pubblicitaria) e con le attività tradizionali di intermediazione (ad esempio il piccolo commercio al dettaglio): quindi è abbastanza improbabile che chi vuole esercitare queste attività opti per questa soluzione.

Piuttosto può accadere che una cooperativa già esistente per altri motivi aggiunga alla propria attività anche quella commerciale: ad esempio una cooperativa per la trasformazione dei prodotti agricoli (vino, olio, ecc.) può decidere di commerciare beni diversi da quelli derivanti dalla propria attività (dolci, formaggi, salumi, ecc.).

Questa forma societaria è, invece, particolarmente indicata per tutte le attività «non profit» o di particolare rilevanza sociale (es. assistenza anziani e soggetti svantaggiati in genere).

Con quale veste giuridica si può esercitare l’impresa artigiana?

L’impresa artigiana può essere esercitata sia da soli che in società. In quest’ultimo caso le forme giuridiche ammesse sono le seguenti:

• S.n.c.: questa forma sociale è la più usata per l’artigianato, e richiede che la maggioranza dei soci (o almeno uno nel caso di due soci) partecipi personalmente all’attività;
• S.a.s.: in tal caso è richiesta la partecipazione personale della maggioranza dei soci accomandatari;
• S.r.l.: in tal caso sono richiesti requisiti diversi per le S.r.l. unipersonali e per quelle ordinarie;1
• Cooperativa;
• Consorzio.

In ogni caso, l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana.


1 Nelle S.r.l. unipersonali il socio unico deve partecipare personalmente all’attività; in quelle ordinarie la maggioranza dei soci deve partecipare personalmente all’attività (nel caso di due soci almeno uno), ma si richiede anche che i soci partecipanti detengano la maggioranza negli organi deliberativi ed amministrativi.

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09/11/2015 - 14:20

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:20

5.4 - Soggetti diversi dall'imprenditore


Vi sono dei casi in cui la partecipazione alla gestione o alla proprietà dell’azienda non fa assumere il ruolo di imprenditore.

La conoscenza di queste situazioni particolari serve soprattutto ad evitare guai al momento dello scioglimento del rapporto, quando le parti potrebbero scoprire di avere mal valutato la propria posizione o quella altrui. Vediamole.

Associazione in partecipazione

Col contratto di Associazione in partecipazione l’associante – che è l’imprenditore, sia questo individuale o collettivo – attribuisce all’associato una partecipazione agli utili (dell’impresa in generale o di uno o più affari); l’associato in cambio fornisce all’associante capitale o lavoro.

In questo rapporto l’associato non diventa socio dell’imprenditore: quest’ultimo conserva interamente la disponibilità dell’azienda e la responsabilità della gestione. Se il risultato dell’attività è negativo, l’associato partecipa alle perdite entro e non oltre i limiti del conferimento eseguito.

Negli ultimi vent’anni l’istituto dell’Associazione in partecipazione è stato a volte usato in forma non appropriata per ottenere prestazioni di lavoro senza stabilire un regolare rapporto d’impiego con il prestatore d’opera. Se il rapporto reale è quello di lavoro subordinato, il ricorso a questa soluzione può essere molto pericoloso sia per l’associante che per l’associato.

Impresa familiare

Come visto nel capitolo 1, nel caso dell’Impresa familiare (art. 230 bis c.c.) si ha un unico titolare individuale, che si avvale della collaborazione:

• del coniuge, e/o
• dei parenti entro il terzo grado e/o
• degli affini entro il secondo grado.

Caratteristiche di questa collaborazione devono essere:
• la continuità e la prevalenza rispetto ad eventuali altre attività;
• l’esercizio della collaborazione nell’ambito dell’impresa (il coniuge che collabora occupandosi prevalentemente dell’organizzazione domestica e familiare quindi non è un «collaboratore familiare» dell’impresa);
• l’assenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Il familiare collaboratore ha diritto al mantenimento ed alla partecipazione agli utili in rapporto al lavoro prestato (al titolare deve comunque rimanere almeno il 51% dell’utile).1 Può inoltre partecipare alle decisioni sull’amministrazione straordinaria e sull’investimento degli utili.

È esclusa la partecipazione dei familiari alle perdite, così come la loro assoggettabilità al fallimento, rimanendo il titolare l’unico vero imprenditore nell’ambito della famiglia.

L’esistenza dell’impresa familiare si formalizza, ai fini fiscali, con apposito atto redatto da pubblico ufficiale.

Come funziona l’impresa familiare

Si ha un’impresa familiare quando il coniuge del titolare di un’impresa individuale, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) o gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) prestano in modo continuativo la loro attività di lavoro nell’azienda, salvo che esista un diverso rapporto contrattuale.

L’amministrazione ordinaria dell’impresa spetta al titolare, quella straordinaria (inerente agli indirizzi produttivi, alla cessazione, ecc.) spetta al titolare insieme con i familiari; le decisioni vengono prese a maggioranza.

Il trasferimento della partecipazione si può effettuare solo a favore di altri familiari e solo col consenso unanime degli altri.

In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda, i familiari hanno diritto di prelazione sull’azienda.

 

1Secondo la normativa vigente, i redditi dell’impresa familiare sono imputati per almeno il 51% al titolare e per il 49% ai familiari, proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili. La quota imputata al titolare è soggetta ad IRAP.

Azienda coniugale

Un caso particolare è quello dell’Azienda coniugale (artt. 177 e 178 c.c.), che riguarda i rapporti patrimoniali tra coniugi (di cui uno o entrambi imprenditori). Si parla di «azienda coniugale» in quanto, trattandosi di proprietà di beni, la disciplina si riferisce alla titolarità dell’azienda e non dell’impresa (quest’ultima di solito è un’impresa individuale).

Sotto l’aspetto fiscale l’azienda coniugale può essere equiparata ad un’impresa collettiva.

Se i rapporti patrimoniali dell’imprenditore con il coniuge sono assoggettati al regime di comunione di beni, al coniuge stesso spetterà sempre il 50% degli incrementi di valore dell’azienda.

Se inoltre l’azienda è gestita da entrambi i coniugi, si hanno i seguenti casi:
1) impresa avviata dopo il matrimonio: comproprietà al 50% dell’azienda e degli utili;
2) impresa avviata prima del matrimonio: comproprietà al 50% dei soli utili.

Su questa situazione patrimoniale si possono innestare strutture d’impresa diverse, in rapporto al livello di coinvolgimento dei coniugi nella gestione dell’impresa. Così potremo avere:

• una impresa individuale (magari strutturata come impresa familiare);
• una società regolare a tutti gli effetti (escluse forme irregolari ammesse fino a qualche anno fa, come

Comunione ereditaria

In caso di morte del titolare di un’impresa può accadere che gli eredi, soprattutto se l’evento si è verificato improvvisamente, non siano in grado di decidere immediatamente il nuovo assetto da dare alla gestione dell’attività.

Per consentire di fare le scelte necessarie con la dovuta calma, la legge permette che gli «eredi in comunione» (cioè tutti gli eredi comproprietari del bene indiviso) possano gestire l’attività per un anno, precisando la struttura giuridica adottata per l’impresa (ditta individuale o società) solo alla scadenza di questo periodo.1

In tal caso, tra gli eredi, quelli che gestiscono l’impresa diventano imprenditori a tutti gli effetti, con tutte le conseguenze connesse.


1Tuttavia la disciplina del Registro delle Imprese non consente l’iscrizione delle comunioni ereditarie, per cui è opportuno provvedere al più presto a scegliere la forma giuridica (individuale o societaria) per l’esercizio a regime dell’impresa.

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09/11/2015 - 14:20

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:20

5.5 - Trasformazione, fusione, scissione


Le società non sono obbligate a conservare sempre la stessa forma: possono anche trasformarsi, fondersi o scindersi.

Si ha trasformazione di una società quando questa assume una struttura sociale diversa da quella originaria (per esempio da S.n.c. a S.r.l.). La trasformazione viene deliberata da un’assemblea straordinaria dei soci, e la società trasformata conserva i diritti e gli obblighi preesistenti.

► Si ha fusione quando due o più società si riconducono ad un unico organismo sociale. Vi sono due tipi di fusione:

• fusione in senso stretto (una o più società si estinguono e danno vita ad un nuovo ente);
• incorporazione (una società incorporante ne assorbe un’altra assumendone gli obblighi e i diritti).

► Si ha scissione quando un unico organismo sociale viene spezzato in più società, o da un unico organismo ne nasce un secondo (scissione parziale).

Il diritto societario è una materia soggetta a mutamenti abbastanza continui e frequenti, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti fiscali (ma ultimamente anche per quelli civilistici). La trattazione minuta di tutti i dettagli è tutt’altro che semplice ed esula dagli scopi di questa pubblicazione. Per maggiori particolari sugli obblighi civilistici e fiscali dei vari tipi di società consigliamo pertanto di:

• consultare apposite pubblicazioni aggiornate anno per anno;
• consultare siti Internet specializzati;
• rivolgersi al proprio consulente di fiducia e, per gli aspetti inerenti ai procedimenti amministrativi, al Registro Imprese della Camera di commercio.

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09/11/2015 - 10:11

Aggiornato il: 09/11/2015 - 10:11

5.6 - Forme sociali non imprenditoriali


Vi sono quattro tipi di forme sociali non imprenditoriali:

Associazioni

Si ha una associazione1 quando due o più persone si uniscono in maniera più o meno duratura per il raggiungimento di un determinato scopo, non lucrativo2 e non mutualistico:3 ad es. etico, culturale, assistenziale, ricreativo, sociale, educativo, religioso, sportivo ecc.

Le associazioni svolgono la loro attività prevalentemente attraverso prestazioni lavorative o in denaro, volontarie o meno, degli aderenti (associati).

Le associazioni possono essere:

• riconosciute:4 in tal caso il patrimonio personale degli associati è separato da quello dell'ente e quindi chi risponde delle obbligazioni contratte dall’associazione (es. debiti) è sempre e soltanto il patrimonio dell'ente (e non quello degli associati); inoltre i creditori personali degli associati non possono rifarsi sul patrimonio dell'ente;
• non riconosciute: in tal caso il patrimonio personale degli associati non è separato da quello dell'ente, e delle obbligazioni contratte dall’associazione possono rispondere – oltre al patrimonio dell'ente – i soggetti che hanno agito in nome e per conto dell'associazione stessa (anche se non sono iscritti).

Per ottenere il riconoscimento l’associazione deve costituirsi con atto pubblico: deve cioè redigere un «atto costitutivo», tramite notaio o pubblico ufficiale, e un altro documento – lo «statuto» – che detta le regole generali per il funzionamento dell’associazione stessa e dei relativi organi.


1Le nozioni contenute in questo paragrafo e nei due successivi sono tratte liberamente da «L’utile senza gli utili – Guida alla creazione dell’impresa sociale», realizzata da Retecamere per la Camera di commercio di Roma.
2Ricordiamo che lo scopo di lucro è tipico delle società di persone e di capitali, escluse le cooperative.
3 Ricordiamo che lo scopo mutualistico è tipico delle società cooperative; è diverso dallo scopo di lucro in quanto non consiste nel conseguire un profitto, ma un «beneficio» genericamente inteso. Scopo della cooperativa non è quindi quello di realizzare degli utili e distribuirli tra i soci, ma di vendere ai soci stessi beni e servizi a prezzi di favore, senza quel margine di profitto normalmente applicato dalle imprese commerciali nelle vendite a terzi.
4Per ottenere il riconoscimento l’associazione deve iscriversi nel Registro delle persone giuridiche private, istituito e tenuto presso l’Ufficio Territoriale del Governo (ex Prefettura). Con il riconoscimento l’associazione acquisisce infatti la cosiddetta “personalità giuridica”, diviene cioè (in estrema sintesi e senza approfondire l’argomento, che di per sé è piuttosto complesso) un soggetto giuridico pienamente distinto dalle persone che lo compongono. Sono persone giuridiche pubbliche lo Stato e gli altri Enti pubblici; sono persone giuridiche private le associazioni e le fondazioni riconosciute, nonché le società di capitali, le cooperative e i consorzi.

Fondazioni

Si ha una fondazione normalmente1 quando un fondatore mette a disposizione un patrimonio per determinati scopi diversi da quello di lucro (culturali, educativi, religiosi, sociali, scientifici o comunque di utilità pubblica). La fondazione forse più nota al mondo è quella realizzata dal chimico svedese Alfred Nobel, l'inventore della dinamite, la quale insignisce ogni anno del premio omonimo personaggi che si sono distinti nel campo delle arti, delle scienze e per il bene dell'umanità.

Anche la fondazione per ottenere il riconoscimento deve costituirsi con atto pubblico (in questo caso si chiama «atto di fondazione»)2 e redigere uno statuto.


1La fondazione può essere realizzata anche da più persone fisiche o giuridiche.
2L’atto di fondazione può essere – oltre che un atto pubblico tra vivi – anche un testamento.

Comitati

Si ha un comitato quando più persone perseguono uno scopo altruistico o di pubblica utilità, e – non disponendo di mezzi patrimoniali adeguati – promuovono una pubblica sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari a tal fine. Ne sono esempi i comitati di soccorso o di beneficenza, nonché i comitati promotori di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti ecc.

L'atto costitutivo, in questo caso, non richiede formalità particolari (può essere redatto anche tramite scrittura privata) ma deve comunque specificare lo scopo per il quale il comitato è stato costituito.

Delle obbligazioni assunte dal comitato verso i terzi rispondono tutti i componenti del comitato stesso in modo illimitato e solidale.

Società di mutuo soccorso

Le Società di mutuo soccorso sono enti associativi tra soggetti che, nel libero esercizio dell’autonomia privata, intendono dar vita a:

• forme di previdenza ed assistenza volontaria (in caso di malattia, invalidità lavorativa, vecchiaia, ecc.);
• attività culturali (in via accessoria).

La legge istitutiva, che risale al 1886, è stata recentemente modificata1 prevedendo l’obbligo di iscrizione in una sezione speciale del Registro Imprese e in una analoga sezione dell’Albo Cooperative tenuto dal Ministero dello sviluppo economico.

La costituzione avviene per atto pubblico notarile e l’iscrizione nel Registro Imprese conferisce alle Società di mutuo soccorso la personalità giuridica privata.


1 Con il decreto legge 179/2012, convertito nella legge 221/2012.

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09/11/2015 - 14:21

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:21

5.7 - Il terzo settore e gli enti "non profit"


Da diversi anni in tutta Europa, Italia compresa, si registra una forte espansione del cosiddetto «Terzo Settore».

Con questo termine si intendono tutte quelle organizzazioni che nel sistema economico si collocano tra lo Stato e il mercato, ma non sono pienamente riconducibili ne all’uno ne all’altro: sono cioè soggetti di natura privata, ma volti alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva.

All’interno del Terzo settore esistono da tempo diverse tipologie di organismi, tra cui ad esempio:

• APS – Associazioni di promozione sociale;1
• ONLUS – Organizzazioni non lucrative di utilità sociale;2
• Cooperative sociali;
• Imprese sociali.

Indipendentemente dalla denominazione e dalla forma giuridica adottata, tutte queste organizzazioni sono caratterizzate dall’assenza di scopo di lucro e dall’erogazione di servizi di pubblica utilità, anche attraverso attività di volontariato.


1Di cui alla legge n. 383 del 7 dicembre 2000.
2Di cui al decreto legislativo n. 460 del 4 dicembre 1997.

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09/11/2015 - 14:22

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:22

5.8 - L'impresa sociale


L’impresa sociale, pur rientrando a pieno titolo in questo contesto, rappresenta qualcosa di nuovo. Essa unisce, infatti, due mondi finora separati:

• quello dell’attività d’impresa;
• quello della produzione di beni e servizi di utilità sociale.

Quest’ultimo settore, tradizionalmente affidato ad enti pubblici, è sempre meno efficiente, di scarso livello qualitativo ed è oggetto di una spesa sociale divenuta oramai insostenibile. Da qui l’idea di rendere produttivo ciò che per sua natura non lo è, attraverso organizzazioni private in grado di offrire beni e servizi di utilità sociale, senza perseguire il profitto ma mantenendo l’azienda in equilibrio economico e finanziario.

Il fatto che un’organizzazione privata sia senza scopo di lucro ed abbia finalità sociali non vuol dire che possa vivere esclusivamente di sussidi: l’impresa sociale va infatti considerata come un’impresa a tutti gli effetti, anche se con caratteristiche particolari.

In questo senso le imprese sociali vengono da alcuni definite come un ibrido tra imprese «for profit» ed enti «non-profit», cioè come organizzazioni private che agiscono per finalità diverse da quelle del profitto («not for profit»).

► L’impresa sociale presenta diverse caratteristiche innovative:1

• la democraticità della gestione (ossia il coinvolgimento di tutti gli stakeholder o portatori d’interesse, sia interni (soci, collaboratori, volontari) che esterni all’organizzazione (utenti finali, committenti, finanziatori o donatori) nella gestione dell’impresa;
• la partecipazione degli utenti finali alla valutazione dei risultati (in tal modo i fruitori dei servizi divengono protagonisti attivi del proprio percorso di emancipazione);
• la rendicontazione sociale, effettuata soprattutto attraverso la redazione e pubblicazione del bilancio sociale (documento che, al di là dei meri aspetti contabili, permette a chiunque di verificare il raggiungimento dei risultati).

Un’altra novità interessante è rappresentata dall’iscrizione dell’organismo qualificato come «impresa sociale» nel Registro delle Imprese, il che implica trasparenza, garanzia ed affidabilità delle informazioni per il mondo economico e degli affari.


1  Precisate nel d.lgs. n. 155/2006 (Legge sull’impresa sociale) e nei rispettivi decreti attuativi.

Definizione di impresa sociale

L’impresa sociale è un particolare tipo di impresa dalle caratteristiche ben definite. Secondo la legge1 si tratta di un’organizzazione:
• privata;
• senza scopo di lucro;
• che esercita una attività economica (produzione o scambio di beni e di servizi) di utilità sociale;
• con finalità di interesse generale.

L’impresa sociale non è una nuova forma giuridica, ma una qualifica2 che viene attribuita – a determinate condizioni – a forme giuridiche già esistenti, e cioè:
• ad organizzazioni di carattere non imprenditoriale: associazioni, fondazioni, comitati;
• ad organizzazioni di carattere imprenditoriale: società (di persone, di capitali, cooperative) e consorzi.

Di conseguenza qualsiasi organizzazione, in possesso dei requisiti, che voglia assumere la qualifica di impresa sociale deve prima costituirsi attraverso una delle forme giuridiche sopra citate.


1Legge 13 giugno 2005, n. 118.
2 Possono acquisire, a determinate condizioni, la qualifica di impresa sociale:
a) gli enti di cui al Libro I del codice civile (enti senza fini di lucro e destinati al perseguimento di finalità etico-sociali: le associazioni riconosciute e non, le fondazioni, i comitati);
b) gli enti di cui al Libro V del codice civile, finalizzati alla produzione di beni e di servizi in funzione meramente lucrativa o di mutualità interna: le società (di persone, di capitali e cooperative) e i consorzi. Si ricorda in proposito che la mutualità si distingue in «interna», rivolta esclusivamente ai soci, ed «esterna», rivolta a terzi (es. territorio, comunità locali, cittadini). In particolare la mutualità interna viene definita come fornire beni, servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri della organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato.

Requisiti dell'impresa sociale

Per essere definita tale,1 l’impresa sociale deve essere di carattere privato e non deve avere scopo di lucro. Ciò significa che:
• non può essere diretta o controllata da imprese private con finalità lucrative e da amministrazioni pubbliche;2
• ha l’obbligo di reinvestire gli utili o gli avanzi di gestione nello svolgimento dell’attività istituzionale o ad incremento del patrimonio;
• ha il divieto di ridistribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione comunque denominati, nonché fondi, riserve o capitali, ad amministratori e a soci, partecipanti (persone fisiche o giuridiche), collaboratori o dipendenti, al fine di garantire in ogni caso il carattere non speculativo della partecipazione all’attività dell’impresa.

L’impresa sociale deve inoltre:
• ottenere oltre il 70% dei ricavi dalla sua attività principale;
• avere come oggetto dell’attività principale l’erogazione di beni e/o servizi di utilità sociale, cioè quelli prodotti o scambiati in determinati ambiti di attività di particolare rilievo etico-sociale per la collettività.

Ad esempio, l’oggetto sociale può riguardare l’assistenza sociale, l’assistenza sanitaria, l’educazione, la tutela dell’ambiente, la valorizzazione del patrimonio culturale ecc.

Indipendentemente dai settori di attività ammessi, possono acquisire il titolo di impresa sociale tutte le organizzazioni che esercitano attività d’impresa in forma associata – quindi tutte le società commerciali comunemente intese – al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano:

• lavoratori svantaggiati,
• lavoratori disabili,
a patto che tali soggetti rappresentino almeno il 30% del personale.


1 Ai sensi della legge n. 118/2005 e del d.lgs. n. 155/2006.
2Di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.

Adempimenti per l'iscrizione dell'impresa sociale

In questo paragrafo accenneremo brevemente agli adempimenti relativi all’iscrizione di tutte le organizzazioni che, indipendentemente dalla forma giuridica adottata, intendano qualificarsi come imprese sociali.

In primo luogo, l’organizzazione che esercita un’impresa sociale deve essere costituita generalmente con atto pubblico, redatto cioè da un notaio.

Oltre a quanto specificamente previsto per ciascuna forma giuridica, gli atti costitutivi devono esplicitare il carattere sociale dell’impresa, indicando in particolare:
• l’oggetto sociale, con riferimento ai settori ammessi dalla normativa, di particolare rilevanza etico-sociale;
• l’assenza di scopo di lucro.

Oltre all’atto costitutivo occorre redigere lo statuto, cioè il documento che detta le regole generali per il funzionamento dell’impresa sociale e dei relativi organi.

Negli atti ufficiali, particolare attenzione deve essere posta sulla denominazione, che deve contenere obbligatoriamente la dicitura «impresa sociale».

Entro trenta giorni dalla costituzione, l’atto costitutivo, le sue eventuali modificazioni e gli altri fatti e documenti relativi all’organizzazione devono essere depositati a cura del notaio o degli amministratori presso l’Ufficio del Registro Imprese della Camera di commercio nella cui circoscrizione è stabilita la sede legale, per l’iscrizione nell’apposita sezione.

La domanda di iscrizione deve essere presentata attraverso il canale telematico della Comunicazione Unica.

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09/11/2015 - 14:23

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:23

6 - L'impresa responsabile


Per saperne di più sulla CSR o responsabilità sociale d’impresa

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09/11/2015 - 15:35

Aggiornato il: 09/11/2015 - 15:35

6.1 - Cos'è la CSR


CSR è l’acronimo di Corporate Social Responsibility, ossia Responsabilità Sociale di Impresa. Vediamo che cosa significa.

Come è definita

La CSR è definita dall’Unione europea come «integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate».

Nella recente Comunicazione della Commissione europea per una nuova strategia sulla CSR 2011-2014,1 essa viene ridefinita come «responsabilità delle imprese per l’impatto che esse producono sulla società».

I tre aspetti della sostenibilità

Tutti questi concetti ruotano attorno a una logica comune, secondo la quale, per valutare le prestazioni globali di un’impresa, occorre fare riferimento alla sostenibilità dal punto di vista:

• economico;
• sociale;
• ambientale.

È necessario che le imprese operino in equilibrio rispetto a tutte e tre le dimensioni citate – economica, sociale, ambientale – e siano consapevoli delle connessioni tra loro esistenti: una decisione riguardante uno di questi ambiti esercita necessariamente delle ripercussioni sugli altri due.


1 Comunicazione n. 681 del 25 ottobre 2011.

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09/11/2015 - 15:35

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6.2 - Alcune domande sulla CSR


Cosa fa un’impresa socialmente responsabile?

La responsabilità sociale è innanzitutto una scelta volontaria, di tipo etico. Quando un’impresa decide di diventare socialmente responsabile la sua gestione, come sopra accennato, non può più limitarsi agli aspetti economici e finanziari, guardando solo agli interessi dei suoi proprietari e azionisti. Essa invece svolge la sua attività cercando di tener conto:

• del contesto socio-ambientale in cui opera: facendosi cioè carico dell’influenza – positiva o negativa – che con la sua attività esercita sull’ambiente e sulla comunità in cui è inserita;
• di tutti i soggetti (persone o organizzazioni) con cui entra in contatto a vario titolo, che possono avere interesse nei confronti delle attività dell’azienda, subirne un qualche tipo di effetto o avere influenza su di essa: tali soggetti vengono chiamati «stakeholder», espressione che in italiano viene solitamente tradotta con «portatori d’interesse».

Chi sono gli «stakeholder»?

I principali e più ricorrenti stakeholder aziendali sono:

• i clienti,
• i fornitori,
• il personale interno,
• gli eventuali soci ed azionisti (chiamati anche shareholder),1
• le istituzioni e la pubblica amministrazione,
• l’ambiente,
• la collettività in genere.

Che vantaggi ha l’impresa socialmente responsabile?

I benefici possono riguardare svariati aspetti. La responsabilità sociale infatti:

• contribuisce a creare un miglior clima aziendale interno, più sicuro e motivante, aumentando la capacità dell’impresa di attrarre personale qualificato e produttivo;2
• procura vantaggi relazionali col contesto esterno, poiché una cultura d’impresa orientata al confronto agevola la creazione di rapporti improntati alla fiducia e al soddisfacimento dei reciproci bisogni;
• consente di sviluppare un rapporto stabile e duraturo con i clienti, basato sulla fiducia nel prodotto/servizio e nell’azienda che lo offre;
• migliora l’immagine e la reputazione dell’impresa;
• può facilitare l’accesso alle fonti di finanziamento, poiché le imprese responsabili sono percepite con un più basso profilo di rischio;
• è un vero e proprio fattore di competitività: un’impresa con un rapporto equilibrato con il proprio territorio – che crea valore non solo per i propri proprietari/azionisti (shareholder) ma anche per tutti gli altri soggetti interessati (stakeholder) – è in grado non solo di rafforzare la propria identità, ma produce anche migliori prospettive economiche a lungo termine. 3

Oltre all’aspetto etico la CSR comporta spesso – anche – un significativo ritorno economico. Basti pensare che, come dimostrato da diverse ricerche:

• il dipendente «felice» aumenta il fatturato aziendale;
• i consumatori sono sempre più sensibili alle tematiche ambientali e scelgono sempre di più prodotti ed aziende «verdi».

La CSR può essere praticata solo dalle grandi imprese?

Non solo le grandi imprese, in grado di destinare importanti risorse, possono praticare la responsabilità sociale. Anzi, molti degli sviluppi più innovativi nell’ambito della CSR hanno origine proprio tra le piccole e medie imprese, che hanno spesso una naturale vocazione verso pratiche socialmente responsabili per alcune delle peculiarità che le caratterizzano, quali:

• la prossimità alla comunità locale e il forte radicamento nel territorio;
• l’influenza dell’imprenditore come persona sia all’interno che all’esterno dell’impresa;
• una migliore capacità di adattamento ai cambiamenti della società e dell’ambiente circostante.


1 Shareholder significa azionista, persona che possiede (hold) una quota (share) di una società. Stakeholder invece indica chi ha un interesse particolare verso un’impresa, pur non possedendo azioni e anche se il suo coinvolgimento non è di natura finanziaria.
2 La responsabilità sociale accresce la motivazione e la lealtà dei dipendenti verso l’azienda. Lo pensa il 92% dei lavoratori intervistati (fonte: «CSR Monitor 2009», GfK Eurisko).

3 A fronte di risultati economici simili nel breve periodo, si manifesta un rischio nettamente inferiore nel lungo periodo per le imprese che si preoccupano anche di creare valore per gli stakeholder piuttosto che competere solo sui costi (fonte: «Valore, imprese e sistema Paese. Strategie d’azienda per la generazione di valore sostenibile» a cura del CReSV dell’Università Bocconi).

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09/11/2015 - 15:35

Aggiornato il: 09/11/2015 - 15:35

6.3 - Gli ambiti di azione della CSR


Vari sono gli ambiti in cui un’impresa può mettere in atto comportamenti socialmente responsabili. Vediamone alcuni.

Mercati di approvvigionamento e di vendita

Per quanto riguarda l’approvvigionamento di merci (prodotti, semilavorati, materie prime ecc.), la gestione dell’intera catena dei fornitori deve essere improntata alla massima correttezza e trasparenza. I fornitori hanno, infatti, notevole influenza sulle performance e sull’immagine di un’azienda, entrando in molte fasi del processo produttivo. È dunque vitale che siano in sintonia con i valori e con il modus operandi dell’azienda e che non siano oberati da condizioni insostenibili in termini di compensi, modalità di pagamento e di esecuzione dei lavori.

Anche l’approvvigionamento di capitali può essere significativamente influenzato dalla scelta di intraprendere la responsabilità sociale d’impresa. Le imprese responsabili, infatti, sono tendenzialmente più solide; inoltre possono accedere anche a specifici canali di finanziamento condizionati proprio da parametri di questa natura (la cosiddetta «finanza etica»).

Dal punto di vista del mercato di vendita, l’accento è sulla qualità e la sicurezza del prodotto/servizio offerto; naturalmente, l’impegno principale per un’azienda è proprio quello rivolto alla massima soddisfazione delle esigenze e delle aspettative dei clienti (customer satisfaction).

Personale e contesto lavorativo

Il personale riveste un ruolo di primo piano nella CSR: le risorse umane sono infatti una componente essenziale per creare valore. Un ambiente di lavoro positivo può favorire il pieno dispiegarsi delle energie e dei talenti delle persone che lavorano all’interno dell’organizzazione aziendale e, in definitiva, migliorare le performance aziendali.

A tal fine è opportuno che l’impresa si preoccupi di:

• assicurare la salubrità e la sicurezza dell’ambiente di lavoro;
• facilitare la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata, attraverso part-time, flessibilità oraria od agevolazioni di altro tipo;
• promuovere la crescita professionale dei propri dipendenti, anche attraverso adeguate attività formative;
• combattere ogni forma di discriminazione per motivi di genere, razza, salute, appartenenze religiose, politiche, sindacali, ecc.

Ambiente

Rappresenta un tema ineludibile per le aziende socialmente responsabili, alla luce delle emergenze connesse all’inquinamento e ai cambiamenti climatici. L’impresa può impegnarsi a ridurre la propria «impronta», ossia il proprio impatto sull’ambiente, impegnandosi a:

• monitorare e ridurre le proprie emissioni attraverso politiche di efficienza energetica e l’uso di fonti rinnovabili;
• ottimizzare i consumi di energia e di materie prime;
• utilizzare adeguati sistemi di smaltimento dei rifiuti;
• privilegiare i fornitori virtuosi e attenti alle questioni ambientali;
• sensibilizzare i dipendenti, i clienti, ma anche i fornitori a prendere iniziative per ridurre il proprio impatto ambientale;
• mettere sul mercato prodotti e servizi in grado di ridurre i danni ambientali.

Territorio e comunità locali

L’impresa può contribuire a uno sviluppo equilibrato del territorio (o dei territori) in cui è insediata, lavorando in partnership con gli attori sociali per realizzare progetti condivisi su aspetti culturali, assistenziali, di promozione sociale in generale. Può ad esempio:

• attuare interventi specifici a sostegno dello sviluppo socio-economico e culturale;
• favorire la coesione sociale;
• promuovere la qualità della vita.

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09/11/2015 - 15:35

Aggiornato il: 09/11/2015 - 15:35

6.4 - Gli strumenti per praticare la CSR


Proponiamo di seguito una carrellata di alcuni dei principali strumenti ed iniziative che possono essere adottate in materia di CSR secondo le varie prassi aziendali.

Linee guida, standard e certificazioni socio-ambientali

Varie sono le possibili linee guida, standard internazionali e certificazioni a cui fare riferimento. Ne citiamo alcune:

• SA 8000 (Social Accountability 8000): identifica uno standard internazionale di certificazione redatto dal CEPAA (Council of Economical Priorities Accreditation Agency) e volto a certificare alcuni aspetti della gestione aziendale attinenti alla responsabilità sociale d’impresa;
• OHSAS 18001 (Occupational Health and Safety Assessment Series): identifica uno standard internazionale per un sistema di gestione della sicurezza e della salute dei lavoratori;
• ISO 14000: identifica una serie di standard internazionali relativi alla gestione ambientale delle organizzazioni;
• ISO 26000: identifica gli standard internazionali in materia di responsabilità sociale d’impresa;
• Ecolabel (etichetta ecologica): identifica un sistema di etichettatura volontario per prodotti al consumo. Il prodotto etichettato «ecolabel» è progettato per limitare al minimo il proprio impatto ambientale in tutto il suo ciclo di vita (dalla produzione allo smaltimento) in un’ottica di sostenibilità.

Codice etico

È un documento che definisce i princìpi e le modalità di condotta che ispirano le scelte aziendali. A tali princìpi devono fare riferimento tutti i soggetti coinvolti nell’organizzazione aziendale nei rapporti che intrattengono con gli stakeholder.

Bilancio sociale

È un’iniziativa volontaria, che si affianca al bilancio d’esercizio previsto dal codice civile; ne integra gli aspetti economici, con informazioni sugli aspetti economici e sociali.

È in pratica un documento di rendicontazione sociale, con il quale l’impresa comunica periodicamente agli stakeholder scelte, azioni e risultati della sua attività.

Ovviamente, redigere un bilancio sociale non significa automaticamente essere socialmente responsabile; esso, infatti, deve rispondere a criteri di veridicità, correttezza e affidabilità delle informazioni che fornisce, possibilmente suffragate da dati oggettivi.

La redazione di un tale documento può anch’essa fare riferimento ad alcune linee guida e standard riconosciuti a livello nazionale e internazionale, come GBS, AA1000 e GRI.1

CSR manager

È la figura aziendale responsabile delle politiche di responsabilità sociale e di sostenibilità. Il CSR manager è incaricato di rileggere le funzioni aziendali con gli «occhiali» della responsabilità sociale e in particolare:

• funge da stimolo a rendere l’impresa responsabile, rendendola più attenta alla salute dei lavoratori, all’impatto sull’ambiente e alla tutela della biodiversità, nonché al rapporto col territorio e con gli stakeholder;
• svolge un ruolo di «consulente» sulle tematiche CSR, a supporto di tutte le funzioni e procedure aziendali.

Marketing sociale

Detto anche «cause related marketing», nasce spesso da una partnership tra un’impresa e un’organizzazione non profit. Riguarda tutte quelle iniziative che hanno lo scopo di promuovere un’immagine, un prodotto o un servizio di carattere sociale o ambientale, integrando tale obiettivo nel più ampio progetto imprenditoriale.

Si possono citare ad esempio campagne di marketing come quelle che prevedono la devoluzione di parte del prezzo pagato dai consumatori per finalità filantropiche.

Non tutto è verde quello che appare

Spesso le imprese (soprattutto multinazionali) propongono per fini puramente commerciali un’immagine falsamente «ecologica» di sé e dei propri prodotti. Questa operazione mistificatoria, detta «greenwashing» (letteralmente «lavaggio col verde»), se scoperta, può provocare una caduta d’immagine con un pericoloso effetto boomerang per l’azienda promotrice.


1 Quest’ultimo fa riferimento più propriamente al bilancio di sostenibilità.

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09/11/2015 - 15:36

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Allegato - Lo Statuto delle Imprese


Il testo completo delle norme per la tutela della libertà d’impresa

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09/11/2015 - 11:02

Aggiornato il: 09/11/2015 - 11:02

Appendice - Un esempio di progetto d'impresa


Un esempio di business plan per capire la logica dei preventivi e dei bilanci

Scarica il documento con il business plan:

ESEMPIO DI PROGETTO DI IMPRESA.pdf

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01/10/2019 - 09:30

Aggiornato il: 01/10/2019 - 09:30