1 - Mettersi in proprio: la scelta imprenditoriale


«Lavoratore autonomo», «imprenditore commerciale», «artigiano»... alcune definizioni

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09/11/2015 - 10:46

Aggiornato il: 09/11/2015 - 10:46

1.1 - Avviare un'attività autonoma o diventare imprenditore


Non sempre è chiaro il significato di espressioni quali «mettersi in proprio», «avviare un’attività autonoma» o «diventare imprenditore».
«Mettersi in proprio» è un’espressione generica che si riferisce a tutte le attività di lavoro non dipendente: si può dire, quindi, che chiunque avvia un’attività lavorativa in forma non subordinata «si mette in proprio».
Più difficile è distinguere l’«attività di lavoro autonomo» dall’«attività imprenditoriale»: in genere, tuttavia, si attribuiscono al lavoro autonomo delle caratteristiche diverse da quelle dell’impresa.

Tutte le attività di lavoro indipendente si possono perciò classificare, secondo le norme civilistiche e fiscali 1, in due categorie principali:
attività di impresa;
attività di lavoro autonomo

Secondo un altro punto di vista, a partire dall’istituzione del Registro delle imprese presso le Camere di commercio, tutte le attività di lavoro indipendente possono essere «rilette» secondo la seguente ripartizione:

• Impresa commerciale e Impresa agricola;
• Piccola impresa;
• Lavoro autonomo.

Tale ripartizione tiene meno conto della differenza tra «attività economica di impresa» e «attività economica non di impresa», ed è legata piuttosto alla dimensione e tipologia dell’«azienda» (cioè – come vedremo più avanti – la combinazione di capitale e lavoro utilizzata dall’imprenditore nell’esercizio della propria attività):

quando l’azienda è grande si ha l’imprenditore in senso stretto, che può essere commerciale (da non confondersi con il «commerciante» – v. più avanti) o agricolo a seconda dell’ambito in cui l’azienda opera;
quando l’azienda è piccola si ha il piccolo imprenditore, figura ibrida in cui confluiscono alcuni piccoli imprenditori commerciali (i piccoli commercianti), i piccoli imprenditori agricoli, gli artigiani e tutti coloro che svolgono attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei familiari);
quando l’azienda non esiste si ha il lavoro autonomo.


Naturalmente esistono infiniti dibattiti in dottrina e giurisprudenza per chiarire i confini tra questi istituti, ma è chiaro che la soluzione di questi problemi non rientra nei compiti della nostra pubblicazione. In ogni caso, ciò che conta per chi legge è che rientrare in uno piuttosto che in un altro di questi quattro tipi di attività, è rilevante a diversi fini: fallimento, tenuta dei libri contabili, regime della pubblicità verso terzi degli atti costitutivi e dei bilanci, regime previdenziale e fiscale ed accesso al credito.


1 Quando si parla di normativa civilistica, si fa riferimento soprattutto al codice civile (c.c.); quando si parla di normativa fiscale si fa riferimento ad alcune leggi fondamentali, tra cui il Testo Unico Imposte sui Redditi (T.U.I.R.), le leggi IVA, ecc.

Attività d'impresa

Attività di lavoro autonomo

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09/11/2015 - 10:47

Aggiornato il: 09/11/2015 - 10:47

1.1.1 - Cosa si intende per "attività di impresa"


Il Codice Civile non fornisce la definizione di «impresa», ma quella di «imprenditore» (art. 2082 c.c.). 

È imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e di servizi.

È evidente che l’attività citata dal codice (economica, organizzata, diretta alla produzione o allo scambio di beni e di servizi, esercitata professionalmente) non è altro che l’impresa. Quest’ultima può essere perciò definita come l’«attività dell’imprenditore».

In base a questa definizione risulta chiaro che, affinché vi sia impresa, devono ricorrere le seguenti condizioni:
• l’esercizio di una attività economica diretta alla produzione o allo scambio di beni e di servizi;
• l’organizzazione dell’attività;
• la professionalità.

Esaminiamole brevemente.

Per non fare confusione: impresa, azienda, ditta

Nel linguaggio comune, «impresa», «azienda» e «ditta» sono usati come sinonimi. Giuridicamente tali termini definiscono, invece, tre concetti diversi:
• l’impresa è l’attività svolta dall’imprenditore;
• l’azienda è lo strumento necessario per svolgere tale attività: locali, mobili, macchinari, attrezzature, ecc.;
• la ditta è la denominazione commerciale dell’imprenditore, (art. 2563 c.c.), cioè il nome con cui egli esercita l’impresa distinguendola dalle imprese concorrenti: così come le persone devono avere un nome e un cognome, anche l’impresa deve avere una «ditta».1


1 Vedi più avanti, «I segni distintivi dell’impresa».

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09/11/2015 - 10:48

Aggiornato il: 09/11/2015 - 10:48

1.1.2 - Caratteristiche dell'impresa


Esercizio di un’attività economica diretta alla produzione o allo scambio di beni e di servizi

L’«attività economica» è un’attività diretta alla creazione di nuova ricchezza, non solo attraverso la produzione di nuovi beni, ma anche aumentando il valore di quelli esistenti (per esempio trasformandoli o mettendoli in commercio). Non rientrano in questa definizione le attività culturali, intellettuali o sportive: ad esempio lo scrittore, lo scienziato, il calciatore non sono considerati imprenditori.

Organizzazione dell'attività

L’attività economica si considera «organizzata» – e può assumere quindi caratteristiche d’impresa – quando è svolta attraverso un’«azienda».
In proposito il codice civile (art. 2555) definisce l’azienda come il «complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa»: macchinari, impianti, attrezzature, locali, arredi, ecc., o più genericamente capitali. Tuttavia oltre che di capitali l’azienda è fatta anche di lavoro, cioè di risorse umane, ognuna con una propria funzione, coordinate e dirette dall’imprenditore.

L’organizzazione deve avere un’importanza apprezzabile nell’esercizio dell’attività: se questa è esercitata con strumenti modesti e senza ricorrere al lavoro altrui, non è attività organizzata (e non può quindi, in questo senso, considerarsi impresa). Per esempio un grafico web che lavori da solo e con l’utilizzo di mezzi ridotti (studio in casa, telefono, computer, ecc.) non è considerato in genere imprenditore ma lavoratore autonomo, come vedremo trattando di questo argomento.

Non è richiesto che l’imprenditore sia anche proprietario dei beni organizzati: è sufficiente che egli ne abbia la disponibilità a qualsiasi titolo (affitto di un’azienda, uso gratuito di un capannone industriale, ecc.).

Quando l’imprenditore non è proprietario di azienda
Proprietario di azienda non vuol dire necessariamente imprenditore. Ad esempio, se Mario Bianchi acquista un negozio di frutta e verdura e lo gestisce personalmente, è imprenditore e proprietario insieme; ma se decide di darlo in locazione, cessa di essere imprenditore, e quindi non ne ha più gli obblighi né i diritti. In questo caso, imprenditore diventa il «conduttore», cioè chi ha preso l’azienda in affitto, con tutte le conseguenze che ne derivano ai fini fiscali, contributivi e delle responsabilità verso terzi.

Professionalità

La professione è l’esercizio abituale e prevalente di un’attività: per «professionalità» s’intende quindi la sistematicità, la non sporadicità dell’attività esercitata.
Ad esempio, uno studente universitario che occasionalmente faccia interviste per una società di indagini demoscopiche non svolge attività professionale, quindi non è considerato imprenditore.
Non è necessario, invece, che l’attività sia svolta ininterrottamente: una attività stagionale, quando sia esercitata in forma organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi (per esempio la gestione di uno stabilimento balneare), costituisce attività d’impresa.
In genere, il requisito della professionalità implica anche lo «scopo di lucro», che in senso stretto è l’intento di ottenere dei ricavi superiori ai costi e conseguire quindi un utile. Tuttavia, le imprese pubbliche e alcuni tipi di imprese private (ad esempio le cooperative) non hanno scopo di lucro in questo senso. Per esse, dunque, tale concetto è inteso in senso più ampio, come «scopo genericamente egoistico» o quantomeno come «criterio di economicità di gestione» (in modo da coprire i costi).

Quando l’attività non è «impresa»

Se si vuole avviare un’attività:
• con un fine non economico (ad esempio un circolo ricreativo o culturale);
non organizzata tramite un’azienda (ad esempio un fotografo ambulante con un’attrezzatura modesta);
• esercitata non in forma professionale (ad esempio delle ripetizioni private a tempo perso),
è facile dedurre che non si tratta di impresa.
Gli enti che hanno un obiettivo non economico quale quello morale, ricreativo, culturale, sportivo, scientifico, ecc., sono inquadrati in apposite figure giuridiche («Associazioni», «Fondazioni», ecc.).1


1 Su questo argomento si rimanda al capitolo sugli aspetti giuridici

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09/11/2015 - 10:50

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1.2 - Ditta, insegna e marchio: i segni distintivi dell'impresa


L’imprenditore, al fine di distinguere la propria attività ed i propri prodotti dai concorrenti, utilizza alcuni «segni distintivi» tutelati dalla legge: la ditta, l’insegna e il marchio.

• La ditta identifica il nome dell’impresa;
• l’insegna identifica i locali dell’impresa;
• il marchio identifica i prodotti (o servizi) dell’impresa.

La ditta

La ditta è il nome sotto cui l’imprenditore esercita l’attività; è l’unico tra i segni distintivi dell’impresa ad essere obbligatorio.

Nel caso di impresa individuale, deve contenere almeno il cognome o la sigla del titolare («Neri A.»; «F.M.»), eventualmente accompagnati da nomi di fantasia («Rossi Mare», «A.B. Service»). Nel caso di impresa collettiva, deve contenere l’indicazione della forma giuridica (S.n.c., S.r.l., ecc.) e corrisponde alla ragione sociale (per le società di persone) o alla denominazione sociale (per le società di capitali): es. «Studio Beta S.n.c. di Mario Bianchi & C.», «Fiat Auto S.p.a.».

La ditta può essere trasferita ad altri solo contestualmente al trasferimento a qualunque titolo (cessione, successione, ecc.) dell’azienda nel suo complesso.
In quanto segno distintivo, la ditta deve individuare l’impresa senza possibilità di confusione, e soprattutto senza ledere i diritti altrui.

Ad esempio, se a Firenze esiste da tempo una ditta il cui nome è «Mario Bianchi Articoli Sportivi», un’altra persona il cui nome fosse pure Mario Bianchi avrebbe ogni diritto di vendere articoli sportivi a Firenze, ma dovrebbe operare sotto una ditta diversa (ad esempio «Mario Bianchi – Tutto per lo Sport»), in modo da rendere ben chiaro che si tratta di un’altra impresa rispetto alla prima.

L'insegna

L’insegna è un emblema affisso sulla porta dei locali in cui opera l’impresa; può contenere parole ed immagini, e può essere generica («cinema», «bar») o specifica («Cinema Astor», «Bar Nettuno»); nel secondo caso gode della stessa tutela accordata alla ditta. Per esporre un’insegna occorre informarsi sulle norme in materia (che sono di competenza comunale e possono variare a seconda delle località e dei quartieri: nei centri storici sono più restrittive), nonché sui relativi tributi.

Il marchio

Il marchio può identificare:

• un prodotto o servizio di un’impresa: Opel «Corsa», Fiat «Punto», «1288», «Trenitalia»;
• una linea di prodotti o servizi: Apple «MacBook», «Europ Assistance»;
• un prodotto o servizio di più imprese: «Pura Lana Vergine», «Bancomat» (in questo caso si parla di «marchio collettivo»).

Può essere formato:

• da un nome (marchio nominativo), spesso coincidente con la ditta: es. il nome «Ferrarelle» scritto con un particolare carattere tipografico;
• da un’immagine (marchio emblematico): es. la «stella a tre punte» della Mercedes, l’«omino di gomma» della Michelin;
• o da ambedue (marchio misto): es. il simbolo dell’IBM, leggibile sia come scritta che come disegno (le linee di scansione dello schermo del computer).

La tutela dei segni distintivi

Per essere pienamente tutelati dalla legge, i segni distintivi:

• non devono contrastare con la legge o con la morale corrente (non devono, ad esempio, contenere parole sconvenienti o immagini pornografiche);
• devono contenere un elemento che caratterizzi proprio quell’impresa o quel prodotto (l’uso dell’insegna «fornaio» non può essere riservato esclusivamente ad un unico imprenditore);
• non devono essere già utilizzati da altre imprese della zona che trattino prodotti simili;
• non devono trarre in inganno l’eventuale acquirente circa la natura del prodotto (così non si può inscatolare carne di sgombro con il nome di «tonno», e non si possono vendere bibite con grado alcoolico inferiore ai dieci gradi con il nome di «vino»).

L’uso di segni distintivi già utilizzati da altri imprenditori può comportare l’intimazione da parte di questi a cessarne l’uso o almeno a modificarli in modo che non consentano confusioni, oltre alla richiesta di risarcimento danni (sempre che l’esistenza di questi venga dimostrata). Un utile accorgimento per evitare complicazioni di questo tipo è quello di verificare, prima di formare la propria ditta o insegna, se esista qualcosa di analogo già registrato al Registro Imprese della Camera di commercio. Pur non costituendo (soprattutto per le insegne) una garanzia assoluta, l’aver effettuato una verifica di questo tipo può, in molti casi, evitare dei problemi inutili e costituisce sempre una prova della volontà di non produrre danni a terzi. Per quanto riguarda il marchio, la migliore protezione possibile è la registrazione come «marchio d’impresa» all’Ufficio Brevetti e Marchi della Camera di commercio (ma è possibile registrare come marchio d’impresa anche la ditta e l’insegna). Registrare un segno distintivo come «marchio d’impresa» consente di estenderne la tutela a tutto il territorio nazionale, a prescindere dall’ambito di diffusione del prodotto. La domanda va presentata all’Ufficio Brevetti e Marchi presso una qualsiasi Camera di commercio.

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05/11/2015 - 09:39

Aggiornato il: 05/11/2015 - 09:39

1.3 - I tre tipi di imprenditore per il Codice Civile


Come abbiamo già detto all’inizio di questo capitolo, il codice civile distingue, in base al genere di attività, due figure fondamentali di imprenditore:1 

imprenditore commerciale (art. 2195 c.c.);
imprenditore agricolo (art. 2135 c.c.).

Il codice inoltre, considerando le dimensioni e le caratteristiche aziendali individua la figura del
piccolo imprenditore, di cui l’imprenditore artigiano rappresenta la figura più tipica (art. 2083 c.c.).


Queste distinzioni non sono puramente accademiche: appartenere all’una o all’altra di queste figure giuridiche comporta una serie di conseguenze rilevanti sul piano amministrativo, fiscale, previdenziale e creditizio.

Per non fare confusione: imprenditore commerciale e commerciante

Attenzione a non confondere «imprenditore commerciale» con «commerciante». Per il codice civile il termine «commerciale» non indica l’appartenenza a un particolare settore economico (quello del commercio), ma identifica un determinato «status giuridico»: sono quindi «imprenditori commerciali» tutti coloro che esercitano attività produttive, di intermediazione (i commercianti in senso stretto) e di servizi, con le caratteristiche sopra indicate.2


1 Il nostro ordinamento giuridico classifica l'imprenditore e la sua attività in un modo poco lineare: ciò è dovuto soprattutto a ragioni storiche, che non è il caso di approfondire in questa sede.
2 Esercizio di attività economica diretta alla produzione e allo scambio di beni e servizi; organizzazione; professionalità.

Chi è imprenditore commerciale

Sebbene il codice distingua tra imprenditore commerciale, imprenditore agricolo e piccolo imprenditore, la figura più importante, che produce cioè le conseguenze giuridiche di maggior rilievo (per esempio la possibilità di fallire) è quella di imprenditore commerciale.
Per opinione corrente il concetto di imprenditore commerciale si ottiene per esclusione, sottraendo dalla nozione generale di «imprenditore» la figura dell’«imprenditore agricolo» e (quando ricorre) del «piccolo imprenditore»: in parole povere, sono imprenditori «commerciali» tutti gli imprenditori che non sono né «agricoli» né «piccoli».
 

È imprenditore commerciale (art. 2195 c.c.) chi esercita:

un’attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi (ad esempio una fabbrica automobilistica, un’emittente televisiva privata);

un’attività intermediaria nella circolazione dei beni (cioè l’attività «commerciale» comunemente intesa):
- commercio all’ingrosso;
- commercio al dettaglio;
- commercio ambulante;
- pubblici esercizi commerciali (bar, ristoranti, ecc.);

un’attività di servizi:
- attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
- attività bancaria o assicurativa;
- altre attività ausiliarie delle precedenti (ad esempio un’agenzia di mediazione, di pubblicità, ecc.).

Come sopra accennato, rientrare in questo quadro giuridico produce una conseguenza molto importante:

l'imprenditore commerciale è assoggettato al fallimento

Il fallimento può avere conseguenze molto pesanti sul piano patrimoniale, ma anche personale, dell’imprenditore.1  Data la complessità della materia, rimandiamo per maggiori dettagli a pubblicazioni specializzate.


1 Come recita la legge fallimentare (R.D. 267/42 –art. 5) «L’imprenditore che si trova in stato d’insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni». La procedura di fallimento ha come scopo quello di soddisfare i creditori dell’impresa. Di conseguenza, il fallito è chiamato a rispondere dei debiti con tutto il suo patrimonio, anche per la parte non investita direttamente nell’azienda.

Chi è imprenditore agricolo

È imprenditore agricolo (art. 2135 c.c. e come modificato dal d.lgs. 228/2001) chi esercita una o più delle seguenti attività:
• coltivazione del fondo;
• selvicoltura;
• allevamento di animali;
• attività connesse (es. produzione e vendita diretta di olio, vino, miele, funghi, formaggi, ecc.).

Per la precisione si intendono «connesse» le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto:
• prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali;
• attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità.

Chi è piccolo imprenditore

Secondo il codice civile (art. 2083 c.c.) sono piccoli imprenditori:

• i coltivatori diretti del fondo;
• gli artigiani;
• i piccoli commercianti;
• coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.

Questa figura, pur richiamata espressamente dal codice aveva perso via via d’importanza per la sostanziale indeterminatezza della legislazione al riguardo, che rendeva – e rende tuttora – difficile identificare con precisione quando un imprenditore è «piccolo». Dal ‘93 ha ripreso tuttavia maggior significato con l’istituzione del Registro delle Imprese presso le Camere di commercio, che prevede una Sezione Speciale per l’iscrizione dei piccoli imprenditori.

Tale figura si connota per due caratteristiche:

• riunisce sia l’ambito di attività dell’imprenditore commerciale (relativamente ai commercianti in senso stretto) che quello dell’imprenditore agricolo;
• si caratterizza per le limitate dimensioni dell’impresa, dove comunque il lavoro del titolare e dei familiari deve essere prevalente sia sul lavoro dei terzi che sul capitale investito nell’azienda.

La conseguenza più importante che deriva da questo status giuridico è che generalmente, a differenza dell’imprenditore commerciale, Il piccolo imprenditore non può fallire.

Attenzione però: il fatto di essere iscritti alla Camera di commercio come piccoli imprenditori non mette del tutto al riparo dal rischio di fallimento. Infatti in caso di insolvenza il piccolo imprenditore non viene automaticamente riconosciuto come tale: è il giudice fallimentare che decide di volta in volta, secondo vari criteri dettati dalla legge fallimentare1 e dalla giurisprudenza in merito. 1 R.d. 16 marzo 1942, n. 267, riformato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169. In base alla riforma, il legislatore fornisce ora una nuova nozione quantitativa di piccolo imprenditore (ammontare di attivo patrimoniale, di ricavi, ecc.) che prescinde dal criterio qualitativo stabilito dall’art. 2083 c.c. Ma le nuove norme non fugano i dubbi interpretativi. In ogni caso il ruolo del giudice fallimentare e della giurisprudenza di merito si conferma fondamentale per applicare la normativa ai singoli casi concreti.

L'imprenditore artigiano

Come si è visto, a proposito del piccolo imprenditore il codice richiama esplicitamente alcune figure (coltivatore diretto, artigiano, piccolo commerciante). Queste figure sono state oggetto di disciplina speciale a vari fini (previdenziali, creditizi, ecc.). Vedremo ora in particolare, per la sua importanza, la disciplina dell’artigianato (con una avvertenza: le definizioni di artigiano per il codice e per la disciplina speciale – pur sovrapponendosi in larga parte – non coincidono esattamente).1

L’attività artigiana, per l’importanza economica che tradizionalmente riveste nel nostro Paese, è regolata a livello nazionale da una Legge speciale sull’Artigianato (legge 443/85 e successive modifiche e integrazioni).2  Tale legge precisa le caratteristiche sia dell’imprenditore artigiano che dell’impresa artigiana. Esistono inoltre diverse leggi regionali che regolano la materia a livello locale.

È considerato imprenditore artigiano chi:
• esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana;
• assume la piena responsabilità dell’impresa, con tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione e gestione;
• svolge prevalentemente in prima persona l’attività, intervenendo, anche manualmente, nel processo produttivo.

L’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana.

Si considera impresa artigiana quella che:
assume esclusivamente una delle forme giuridiche consentite dalla Legge Speciale (Impresa individuale, Società in nome collettivo, Società in accomandita semplice, Società a responsabilità limitata, Cooperativa, Consorzio);
ha un numero di dipendenti non superiore a determinati limiti, che variano da 8 a 40 secondo il tipo di contratto (apprendisti o non apprendisti), di lavorazione (in serie o non in serie) e di settore (edilizia, trasporti, abbigliamento, ecc.); 3
è rivolta alla produzione di beni (anche semilavorati) e di servizi, ad esclusione delle seguenti attività:
- attività agricola;
- attività di intermediazione commerciale (somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, commercio all’ingrosso, al dettaglio, ecc.);
- attività ausiliarie di queste ultime (agente, mediatore, ecc.).

Naturalmente l’artigiano potrà svolgere le attività di cui sopra in quanto «strumentali ed accessorie» all’esercizio dell’impresa: ad esempio una pasticceria artigiana può vendere i propri prodotti anche direttamente al pubblico (purché tali prodotti siano consumati immediatamente nei locali di produzione), in quanto tale commercio è puramente accessorio – cioè secondario – rispetto all’attività principale (quella produttiva).

Più in generale l’artigiano può vendere liberamente prodotti propri e di terzi, però con alcune limitazioni:
nel caso in cui venda prodotti propri al di fuori dei locali di produzione dovrà attenersi agli obblighi previsti per i commercianti, ma ciò non gli farà perdere la qualifica di artigiano;
nel caso in cui venda prodotti non realizzati da lui, non solo dovrà attenersi agli obblighi previsti per i commercianti, ma (se il reddito che gli deriva dal commercio è maggiore di quello che proviene dall’attività produttiva) potrà perdere la qualifica di artigiano ed acquisire quella di commerciante.

È bene ricordare ancora che la figura dell’artigiano, come definita dalla legge speciale, non coincide esattamente con quella prevista dal codice civile; ai fini pratici, tuttavia, ciò che conta sapere è che ogni imprenditore che abbia le caratteristiche previste dalla legge speciale sull’artigianato è tenuto a presentare domanda di iscrizione all’Albo provinciale delle imprese artigiane, che di regola ha sede presso la Camera di commercio.4  Dall’iscrizione all’Albo derivano importanti conseguenze:
l’obbligo del pagamento dei contributi INPS per la previdenza e l’assistenza sanitaria previste a carico degli artigiani;
• il diritto ad usufruire di sgravi fiscali non indifferenti, di finanziamenti agevolati (erogati soprattutto dall’Artigiancassa, l’ente finanziario di categoria) e di altri benefici («abbattimenti» contributivi per i dipendenti, ecc.).

L’artigiano ieri e oggi: dal calzolaio all’esperto di siti web
Al giorno d’oggi artigiano non è più solo il calzolaio, il fabbro ferraio o l’impagliatore di sedie. Può rientrare in questa figura giuridica, se ne ha i requisiti, anche chi offre prodotti o servizi innovativi: ad esempio fotografia industriale, pubblicità e comunicazione d’impresa, computergrafica, desktop publishing, realizzazione di siti internet, ecc.


1Alcuni esempi: il caso dell’artigiano iscritto all’Albo apposito ma non piccolo imprenditore (es. Srl unipersonale artigiana) e viceversa quello del piccolo imprenditore artigiano ma non iscritto all’Albo (es. titolare di impresa familiare artigiana non partecipante all’attività produttiva).
2 Modificata dalla legge 20 maggio 1997, n° 133 «Modifiche all’articolo 3 della legge 8 agosto 1985 in materia di impresa artigiana costituita in forma di società a responsabilità limitata con unico socio o di società in accomandita semplice».
3Ad es. un'impresa di trasporto, per essere considerata artigiana, deve avere non più di 8 dipendenti; un'impresa che opera nei settori delle lavorazioni artistiche, tradizionali e dell'abbigliamento su misura, per essere considerata artigiana deve avere un massimo di 32 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 16: il numero massimo dei dipendenti può essere elevato fino a 40 a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti; ecc. Per maggiori informazioni si può consultare la banca dati «Filo d'Arianna» presso le Camere di commercio o Aziende speciali convenzionate con Retecamere.
4 In alcune regioni, come ad esempio in Toscana, le Commissioni provinciali per l’artigianato (C.P.A.) sono state abolite e le relative funzioni vengono svolte direttamente dalle Camere di commercio.

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09/11/2015 - 10:54

Aggiornato il: 09/11/2015 - 10:54

1.4 - Quando un imprenditore è "piccolo" in senso economico


Attenzione a non confondere la denominazione «piccola e media impresa» (PMI) con la definizione data dal codice civile a proposito del «piccolo imprenditore». La prima è una classificazione di tipo economico, la seconda identifica uno «status» giuridico.

Dal punto di vista economico, le imprese possono essere classificate in vario modo per le loro dimensioni. Fino a qualche anno fa, per classificare la dimensione di un’impresa in senso economico si usavano criteri di tipo statistico (però non accettati da tutti) che prendevano in considerazione il numero degli addetti e il fatturato.1

Oggi si fa riferimento principalmente alla normativa dell’Unione Europea (Disciplina sugli Aiuti di Stato). Ciò offre un quadro comune di riferimento e criteri chiari di individuazione delle imprese, soprattutto quanto a questioni come l’«autonomia» delle PMI, e la possibilità o meno per una PMI di essere considerata tale nel caso di controllo da parte di un’altra impresa o gruppo.

Per la Commissione Europea, secondo i parametri attualmente in vigore,2  occorre distinguere se l’impresa sia «autonoma»3  o meno.

Nel primo caso, sono considerate «microimprese» quelle che hanno:
• non più di 10 effettivi;4
• o un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di Euro (si considera il dato più favorevole).

Sono considerate «piccole imprese» quelle che hanno:
• non più di 50 effettivi;
• o un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di Euro (si considera il dato più favorevole).

Sono, invece, «medie imprese» quelle che hanno:
• non più di 250 effettivi;
• o un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di Euro o un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di Euro (si considera il dato più favorevole).

Nel secondo caso, ai fini del rispetto dei parametri sopra indicati, ai dati relativi all’impresa considerata (effettivi e fatturato o totale di bilancio) occorre sommare quelli delle imprese associate o collegate ad essa.5

Sei imprenditore? Devi...

  • Tutti gli imprenditori (commerciali, agricoli e piccoli) sono tenuti all’iscrizione nel Registro delle Imprese presso la Camera di commercio competente, cioè quella della provincia in cui è posta la sede legale.
  • I soli imprenditori commerciali sono inoltre obbligati, ai fini civilistici, alla tenuta delle scritture contabili, obbligo che peraltro, ai fini fiscali, finisce per estendersi anche a quasi tutti gli imprenditori. 6
    Tali scritture e la corrispondenza commerciale (fatture, lettere, ecc.) devono essere conservate per dieci anni.

1 Un modello di classificazione statistica era il seguente: fino a 10 addetti, microimpresa; fino a 100 addetti, piccola impresa; fino a 500 addetti, media impresa; oltre 500 addetti, grande impresa. Oggi, nel glossario dell’Istat compaiono le seguenti definizioni: piccola impresa (commercio al dettaglio), l’impresa con uno o due addetti; media impresa (commercio al dettaglio), l’impresa, con un numero di addetti da tre a cinque, prevalentemente caratterizzata da piccole superfici di vendita; grande impresa, quella che occupa 500 addetti ed oltre.
2 Parametri desunti dall’All. 1 Reg. 800/2008.
3 È considerata «autonoma» qualsiasi impresa «non associata» o «non collegata» ad altre imprese.
4 Espressi in termini di ULA (Unità Lavorative Anno), che si ottengono sommando il numero degli occupati a tempo pieno per l’intero anno, a quello degli stagionali e degli occupati a tempo parziale, contabilizzati in frazioni di ULA.
5Ai dati relativi all’impresa associata occorre sommare una proporzione dei dati relativi a tutte le altre imprese associate. La proporzione va calcolata in base alla percentuale di partecipazione al capitale o alla percentuale dei diritti di voto detenuti dalle altre imprese associate (si considera la percentuale più elevata delle due, così come nel caso di partecipazioni incrociate).
Ai dati relativi all’impresa collegata occorre sommare il 100% dei dati relativi a tutte le altre imprese collegate.
6 In teoria, secondo il codice gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori non sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili; in pratica però, nella maggior parte dei casi, vi sono obbligati dalle norme fiscali, soprattutto se esercitano l’attività sotto forma di società.

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09/11/2015 - 10:59

Aggiornato il: 09/11/2015 - 10:59

1.5 - Cosa si intende per "attività di lavoro autonomo"


Con tale espressione si intende (art. 2222 c.c. – «contratto d’opera») ogni attività lavorativa che prevede:

• l’esecuzione, contro corrispettivo, di un’opera o di un servizio;
• con lavoro prevalentemente proprio;
• senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.

Come accennato all’inizio, il lavoro autonomo si differenzia dall’impresa principalmente per l’assenza di una significativa organizzazione, cioè di una azienda1
 

Secondo la normativa fiscale (artt. 49 e 81 TUIR) e secondo le ultime disposizioni legislative in materia di lavoro (d.lgs. 276/03) le attività autonome possono essere svolte nei modi seguenti:

esercizio di arti o professioni;
collaborazione a progetto, che ha sostituito di fatto la tradizionale «collaborazione coordinata e continuativa»;2
lavoro autonomo occasionale.


1 Dal punto di vista giuridico, nel caso di studi professionali che si avvalgono del lavoro di personale non abbiamo comunque un’azienda, che come detto sopra è lo strumento necessario per esercitare un’attività di impresa: tutta l’attività è infatti incentrata sull’opera del professionista, e gli eventuali dipendenti o collaboratori (segretarie ecc.) svolgono un ruolo puramente accessorio.
2 La «collaborazione coordinata e continuativa» è quell’attività che pur avendo contenuto intrinsecamente professionale viene svolta:
• senza vincolo di subordinazione a favore del committente, ma in modo adeguato alle sue esigenze (l’attività del collaboratore è infatti «coordinata» con quella del committente, che impartisce delle direttive di massima);
• nel quadro di un rapporto «continuativo» (cioè non occasionale) e a termine;
• senza impiego di «mezzi organizzati» (cioè non usando propri locali, macchinari, attrezzature, ecc.);
• con retribuzione periodica prestabilita.
A differenza del professionista intellettuale, il collaboratore deve garantire il risultato finale dell’opera o del servizio reso al committente.
Anche gli esercenti arti o professioni possono svolgere attività di collaborazione: in questo caso, tuttavia, deve trattarsi di attività collaterali (non rientranti, perciò, nell’arte o professione abituale esercitata dal soggetto).

Esercizio di arti o professioni

Si considera tale lo svolgimento di attività di lavoro autonomo per professione abituale (anche se non esclusiva).

Rientrano in questa categoria:

• gli artisti (pittori, musicisti, ecc.) e i professionisti dello sport e dello spettacolo (calciatori, attori, ecc.);
• i professionisti intellettuali (avvocati, medici, commercialisti, ecc.).

Questi ultimi sono considerati prestatori d’opera intellettuale (art. 2229 e segg. c.c.), i cui elementi distintivi sono:

• il carattere intellettuale della prestazione, cioè l’uso di intelligenza e cultura in modo prevalente rispetto all’eventuale impiego di lavoro manuale;
• la discrezionalità nell’esecuzione del lavoro: il medico o l’avvocato, ad esempio, possono eseguire il lavoro che gli è stato affidato come meglio credono;
• il semplice compimento della prestazione indipendentemente dal risultato. Il professionista intellettuale, cioè, ha diritto al compenso per il solo fatto di aver prestato la propria opera: si è tenuti, ad esempio, a pagare l’onorario all’avvocato anche se si perde la causa.


A volte per esercitare una professione è richiesta l’iscrizione preventiva in appositi albi, ordini o elenchi: si parla, in tal caso, di professioni protette (giornalisti, notai, medici, ecc. – cfr. in proposito l’art. 2229 c.c.); in caso contrario, si parla di professioni libere (es. consulenti d’azienda, pubblicitari, ecc.).1

[In quanto tali, gli esercenti arti o professioni non sono imprenditori: essi però lo diventano quando operano nell’ambito di un’altra attività considerata imprenditoriale (un architetto che opera in una impresa di costruzioni di cui è titolare, un regista che lavora per una casa cinematografica di cui è proprietario, ecc.). In questi casi lo stesso soggetto può essere insieme imprenditore e lavoratore autonomo (con due diversi regimi fiscali): ad es. un medico quando opera come libero professionista è un lavoratore autonomo, quando opera nella sua clinica privata è un imprenditore].


1 Il professionista non iscritto in albi non va confuso con il c.d. «libero professionista», termine che si riferisce comunemente a tutti i professionisti.


Collaborazione a progetto

Come sopra accennato, nel settore privato il d.lgs. 276/2003 (attuativo della l. 30/2003, cosiddetta «legge Biagi») ha sostituito il tradizionale contratto di «collaborazione coordinata e continuativa» (che continua tuttavia a sussistere per alcuni casi particolari)1  con il contratto di «collaborazione a progetto».2

Fatte salve queste eccezioni, tutti i contratti di collaborazione coordinata e continuativa sono stati a suo tempo trasformati – laddove possibile – in contratti a progetto o in normali contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Questa norma si è resa necessaria per il fatto che molti datori di lavoro hanno fino a ieri abusato della forma contrattuale di collaborazione coordinata e continuativa, utilizzando per diversi anni dei co.co.co. come veri e propri dipendenti di fatto.

Il contratto a progetto è un rapporto di lavoro autonomo continuativo (cioè non sporadico), in base al quale il collaboratore assume, ufficialmente senza vincolo di subordinazione,3  l’incarico di eseguire uno o più progetti specifici o programmi di lavoro (o delle fasi di essi) determinati dal committente.

Tale contratto presenta le seguenti caratteristiche:
• è un incarico gestito autonomamente in funzione del risultato da raggiungere (nel rispetto tuttavia del vincolo di coordinamento con il committente);
• ha durata determinata o determinabile dalla natura del progetto stesso (ma entro tale termine è irrilevante il tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione).

Co.co.pro., autonomo in teoria
In realtà le collaborazioni a progetto si trovano a metà strada fra il lavoro autonomo e il lavoro dipendente: in tali casi si parla, infatti, di contratti e/o lavoratori parasubordinati. Questo spiega fra l’altro la diversa qualificazione fiscale che ha subito, nel tempo, il reddito prodotto da questo tipo di attività.


1  Il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa senza progetto si applica solo nella pubblica amministrazione (d.lgs. 276/03, circolare ministeriale 1/2004).
Nel settore privato si applica la disciplina della collaborazione a progetto, tranne che nei seguenti casi (d.lgs. 276/2003, art. 61 comma 2):
• professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali esistenti alla data del 24 ottobre 2003 (circolare ministeriale 1/2004);
• attività di collaborazione rese e utilizzate a fini istituzionali in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal Coni;
• componenti degli organi di amministrazione e controllo di società e partecipanti a collegi e commissioni (compresi gli organismi di natura tecnica – c.m. 1/2004);
• collaboratori che percepiscono la pensione di vecchiaia (compresi quei soggetti, titolari di pensione di anzianità o di invalidità che, ai sensi della normativa vigente, al raggiungimento del 65° anno di età, vedono automaticamente trasformato il loro trattamento in pensione di vecchiaia – c.m. 1/2004);
• agenti e rappresentanti di commercio.
2 Tecnicamente il contratto a progetto è una fattispecie di collaborazione coordinata e continuativa ed è la sola modalità di co.co.co. applicabile nel settore privato.
3 D.lgs. 276/2003, art. 61 e segg.

Lavoro autonomo occasionale

Si considera tale qualsiasi attività di lavoro autonomo:

non continuativa, esercitata cioè in modo sporadico (es. un medico che scrive occasionalmente un articolo su una rivista scientifica; uno studente universitario che viene ingaggiato per la distribuzione di volantini in occasione di un evento particolare);
senza vincolo di coordinamento con il committente.


Il d.lgs. 276/03 ha definito più precisamente il lavoro autonomo occasionale come una prestazione con le seguenti caratteristiche:

la durata complessiva non deve essere superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare, nei confronti dello stesso committente;
la somma dei compensi percepiti nel medesimo anno solare da ogni committente non deve superare i 5.000 euro (soglia al di sopra della quale scattano determinati obblighi contributivi).

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09/11/2015 - 14:28

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:28