5.4 - Soggetti diversi dall'imprenditore


Vi sono dei casi in cui la partecipazione alla gestione o alla proprietà dell’azienda non fa assumere il ruolo di imprenditore.

La conoscenza di queste situazioni particolari serve soprattutto ad evitare guai al momento dello scioglimento del rapporto, quando le parti potrebbero scoprire di avere mal valutato la propria posizione o quella altrui. Vediamole.

Associazione in partecipazione

Col contratto di Associazione in partecipazione l’associante – che è l’imprenditore, sia questo individuale o collettivo – attribuisce all’associato una partecipazione agli utili (dell’impresa in generale o di uno o più affari); l’associato in cambio fornisce all’associante capitale o lavoro.

In questo rapporto l’associato non diventa socio dell’imprenditore: quest’ultimo conserva interamente la disponibilità dell’azienda e la responsabilità della gestione. Se il risultato dell’attività è negativo, l’associato partecipa alle perdite entro e non oltre i limiti del conferimento eseguito.

Negli ultimi vent’anni l’istituto dell’Associazione in partecipazione è stato a volte usato in forma non appropriata per ottenere prestazioni di lavoro senza stabilire un regolare rapporto d’impiego con il prestatore d’opera. Se il rapporto reale è quello di lavoro subordinato, il ricorso a questa soluzione può essere molto pericoloso sia per l’associante che per l’associato.

Impresa familiare

Come visto nel capitolo 1, nel caso dell’Impresa familiare (art. 230 bis c.c.) si ha un unico titolare individuale, che si avvale della collaborazione:

• del coniuge, e/o
• dei parenti entro il terzo grado e/o
• degli affini entro il secondo grado.

Caratteristiche di questa collaborazione devono essere:
• la continuità e la prevalenza rispetto ad eventuali altre attività;
• l’esercizio della collaborazione nell’ambito dell’impresa (il coniuge che collabora occupandosi prevalentemente dell’organizzazione domestica e familiare quindi non è un «collaboratore familiare» dell’impresa);
• l’assenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Il familiare collaboratore ha diritto al mantenimento ed alla partecipazione agli utili in rapporto al lavoro prestato (al titolare deve comunque rimanere almeno il 51% dell’utile).1 Può inoltre partecipare alle decisioni sull’amministrazione straordinaria e sull’investimento degli utili.

È esclusa la partecipazione dei familiari alle perdite, così come la loro assoggettabilità al fallimento, rimanendo il titolare l’unico vero imprenditore nell’ambito della famiglia.

L’esistenza dell’impresa familiare si formalizza, ai fini fiscali, con apposito atto redatto da pubblico ufficiale.

Come funziona l’impresa familiare

Si ha un’impresa familiare quando il coniuge del titolare di un’impresa individuale, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) o gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) prestano in modo continuativo la loro attività di lavoro nell’azienda, salvo che esista un diverso rapporto contrattuale.

L’amministrazione ordinaria dell’impresa spetta al titolare, quella straordinaria (inerente agli indirizzi produttivi, alla cessazione, ecc.) spetta al titolare insieme con i familiari; le decisioni vengono prese a maggioranza.

Il trasferimento della partecipazione si può effettuare solo a favore di altri familiari e solo col consenso unanime degli altri.

In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda, i familiari hanno diritto di prelazione sull’azienda.

 

1Secondo la normativa vigente, i redditi dell’impresa familiare sono imputati per almeno il 51% al titolare e per il 49% ai familiari, proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili. La quota imputata al titolare è soggetta ad IRAP.

Azienda coniugale

Un caso particolare è quello dell’Azienda coniugale (artt. 177 e 178 c.c.), che riguarda i rapporti patrimoniali tra coniugi (di cui uno o entrambi imprenditori). Si parla di «azienda coniugale» in quanto, trattandosi di proprietà di beni, la disciplina si riferisce alla titolarità dell’azienda e non dell’impresa (quest’ultima di solito è un’impresa individuale).

Sotto l’aspetto fiscale l’azienda coniugale può essere equiparata ad un’impresa collettiva.

Se i rapporti patrimoniali dell’imprenditore con il coniuge sono assoggettati al regime di comunione di beni, al coniuge stesso spetterà sempre il 50% degli incrementi di valore dell’azienda.

Se inoltre l’azienda è gestita da entrambi i coniugi, si hanno i seguenti casi:
1) impresa avviata dopo il matrimonio: comproprietà al 50% dell’azienda e degli utili;
2) impresa avviata prima del matrimonio: comproprietà al 50% dei soli utili.

Su questa situazione patrimoniale si possono innestare strutture d’impresa diverse, in rapporto al livello di coinvolgimento dei coniugi nella gestione dell’impresa. Così potremo avere:

• una impresa individuale (magari strutturata come impresa familiare);
• una società regolare a tutti gli effetti (escluse forme irregolari ammesse fino a qualche anno fa, come

Comunione ereditaria

In caso di morte del titolare di un’impresa può accadere che gli eredi, soprattutto se l’evento si è verificato improvvisamente, non siano in grado di decidere immediatamente il nuovo assetto da dare alla gestione dell’attività.

Per consentire di fare le scelte necessarie con la dovuta calma, la legge permette che gli «eredi in comunione» (cioè tutti gli eredi comproprietari del bene indiviso) possano gestire l’attività per un anno, precisando la struttura giuridica adottata per l’impresa (ditta individuale o società) solo alla scadenza di questo periodo.1

In tal caso, tra gli eredi, quelli che gestiscono l’impresa diventano imprenditori a tutti gli effetti, con tutte le conseguenze connesse.


1Tuttavia la disciplina del Registro delle Imprese non consente l’iscrizione delle comunioni ereditarie, per cui è opportuno provvedere al più presto a scegliere la forma giuridica (individuale o societaria) per l’esercizio a regime dell’impresa.

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09/11/2015 - 14:20

Aggiornato il: 09/11/2015 - 14:20